giovedì 4 aprile 2013

Critica alla teoria del signoraggio bancario - parte seconda: altre definizioni

Salario, Rendita e Profitto

Il salario:

Definiamo "salario" il compenso erogato a un individuo in cambio del suo lavoro. Che sia in denaro o in natura, il salario a prima vista potrebbe essere considerato il prezzo della merce: il lavoratore la produce, ne entra in possesso e la cede immediatamente a qualcuno, ad esempio il proprietario dell'azienda in cui lavora, in cambio del salario.

Ma con alcune cautele. Anzitutto bisogna capire cosa distingue il salariato da un artigiano: il salariato utilizza mezzi di produzione che non sono di sua proprietà. L'artigiano è proprietario dei mezzi di produzione che utilizza (fatte salve le rendite, vedi oltre).

Inoltre - e di conseguenza - il salariato produce merce per un certo valore e riceve quel valore come salario. Poi va sul mercato e cerca di ricomprare la stessa merce che aveva prodotto (merce-denaro-merce) scoprendo che costa di più di quanto gli era stata pagata come salario...

Questo non accade all'artigiano né tanto meno al proprietario. Quest'ultimo paga il prezzo della merce - il salario - con del denaro. Entra in possesso della merce e la rivende per più denaro rispetto a quello speso per il salario (denaro-merce-denaro). E' come se il valore di scambio della stessa merce cambiasse a seconda di chi ne è in possesso: minore quando è prodotta dal salariato, maggiore quando è venduta dall'impresa.

La rendita:

E' il compenso che convince il proprietario di un fattore produttivo (attrezzature, immobili, terreno, denaro) a darlo in utilizzo.
La rendita per sua natura è indipendente dalla reale redditività del fattore produttivo dato in uso: un ufficio viene affittato per 2.000 euro al mese a prescindere dal fatto che l'azienda che lo utilizza sia in utile o in perdita. Allo stesso modo la banca e gli obbligazionisti chiedono gli interessi sul capitale prestato a prescindere dal bilancio dell'azienda debitrice (il che li rende differenti dai soci, ad esempio, che incassano dividendi, cioè utili, e appianano perdite).

La rendita quindi deriva dalla mera proprietà di un bene. Chi utilizza quel bene - salariato e imprenditore - deve produrre quantitativi di merce del valore sufficiente non solo a mantenere i fattori produttivi variabili, ma anche a coprire la rendita fissa.


Il profitto:

E' ciò che rimane a un imprenditore dopo aver decurtato dai ricavi delle vendite i costi della produzione, ad esempio rendite e salari compreso il suo, il costo dell'usura dei mezzi produttivi (ammortamento), i costi delle materie prime etc. Alla fine resta il profitto, che si configura come compenso per il cosiddetto rischio di impresa e l'intuizione imprenditoriale.

Dinamiche sociali:

Rendite, profitti e salari potrebbero essere percepiti dalla medesima persona. Anzi si tratta della normalità dei casi nella nostra parte del mondo: un salariato potrebbe essere proprietario di una seconda casa che dà in affitto, un professionista percepisce salario e profitto in un'unica parcella ma paga l'affitto per il suo studio...

Ma una cosa va detta subito: ciò che in un ciclo produttivo paga i salari, le rendite e i profitti è solo ed unicamente il valore di scambio della merce prodotta. Non inventativi perciò nulla di strano e non date retta a teorie metafisiche. E' talmente banale che ritengo di non doverlo nemmeno dimostrare, e spudoratamente rovescio l'onere della prova.

Dato che il valore della merce è quello, e dato che va diviso in tre parti, i percettori di salario, di profitti e di rendite tendono a massimizzare la componente preponderante del proprio reddito. Al salario perciò conviene comprimere profitti e rendite per aumentare la propria fetta. Il profitto può massimizzare se stesso solo quando comprime a dovere rendite e salari, eccetera.

Questo interesse alla reciproca marginalizzazione e compressione produce oggettivamente una dialettica di tipo conflittuale. Questa dialettica è potenzialmente esplosiva nelle società in cui salariati, percettori di profiitti e redditieri sono tre classi rigidamente distinte, e non sono certo io a scoprire che ci sono state rivoluzioni e colpi di stato.

Tant'è che nella storia si possono identificare chiaramente i tipi di società e le ideologie che hanno privilegiato una componente rispetto all'altra: le rendite durante il feudalesimo, il profitto nel capitalismo proprio come emancipazione della borghesia dall'aristocrazia feudale, i salari col socialismo.

  
Il credito

Definizione:
Un prestito (o credito) è denaro dato in uso ad altri per essere restituito, maggiorato, a distanza di tempo. E' come se il denaro oggi fosse una merce diversa dal denaro domani, o, più precisamente, il valore di scambio della merce "denaro-adesso" è superiore al valore di scambio della merce "denaro-futuro".

Queste dinamiche risulterebbero incomprensibili senza un postulato: il denaro è proprietà di qualcuno, e questo qualcuno bada al proprio interesse economico.

Quindi escludiamo dalla discussione i casi in cui il babbo presta soldi al figliolo perché si compri casa e limitiamo la discussione al prestito oneroso. Così possiamo esaminare le ragioni per cui il denaro futuro ha un valore di scambio inferiore al denaro presente (cioè serve una quantità maggiore di denaro futuro per comprare del denaro presente).

1) Rinuncia: chi presta denaro a qualcuno rinuncia ad usarlo lui stesso per tutta la durata del prestito. Questa rinuncia ha un costo che viene fatto pagare al debitore. Senza il pagamento di questo costo non esistono ragioni per prestare denaro a qualcuno, se non quelle di ordine affettivo o filantropico da noi escluse precedentemente.

2) Rischio: chi si priva momentaneamente del possesso di una quantità di denaro richia di non rivederlo più per intero. La probabilità di questo rischio potrebbe essere calcolata e trasformata in un vero e proprio costo con una certa precisione (le banche sui grandi numeri lo fanno).

3) Lucro: se il denaro prestato serve al debitore per avviare un'attività economica, chi presta il denaro intende prendere parte agli utili senza entrare in società.

Va notato che il tempo è un fattore fondamentale: più lunga è la durata del prestito e più elevati diventano i "costi" collegati ai punti 1 e 2. La rinuncia alla liquidità è più pesante quando dura tre anni anziché uno. Lo stesso vale per il rischio di insolvenza del debitore.

Interessi:

Il compenso per il prestito del denaro prende il nome di "interesse" e normalmente viene stabilito con un coefficiente percentuale - chiamato "tasso di interesse" - per una certa durata.

Un tasso di interesse del 5% all'anno significa che prestando 100 euro per la durata di un anno, alla scadenza mi dovranno essere restituiti 105 euro. Il che significa anche che 100 euro di capitale, con scadenza a un anno, in data odierna valgono meno (95,24 euro circa cioè 100÷1,05). Operazione quest'ultima che prende il nome di "sconto".

Non esiste un tasso negativo: il tasso di interesse è sempre superiore allo zero.

Rischi intesi come "costo" per chi presta:

Come regola generale la durata del prestito, così pure il rischio di insolvenza, agiscono negativamente sull'interesse. Questa azione negativa è calcolabile con sorprendente precisione nei grandi numeri, ma qui il discorso diventerebbe troppo tecnico anche per me.

Comunque per spiegare il concetto: io potrei accettare un tasso del 5% per prestare i soldi allo Stato per sei mesi, ma se la durata fosse di 5 anni vorrei un tasso più elevato perché - penso - magari ne avrò bisogno. O se il debitore non fosse lo stato ma una società privata vorrei un tasso più elevato ancora, perché lo riterrei meno affidabile.

In altre parole l'aumento del rischio e della durata abbattono la profittabilità del prestito, agendo come una sorta di tasso negativo. Potrei addirittura non accettare nessun tasso per quanto elevato e voler restare in liquidità, perché il rischio di perdere il capitale è immenso.

Sulla profittabilità del prestito, infine, agisce negativamente anche l'inflazione. In presenza di tassi di inflazione più elevati è logico aspettarsi tassi di interesse più elevati.

Perché ci si indebita?

Come detto tralasciamo il caso del debito per povertà.

Ci si indebita principalmente per due ragioni: il privato si indebita per poter acquistare merci - in genere durevoli - dal valore troppo elevato per il suo risparmio. Il credito gli consente di ottenere il beneficio della proprietà del bene senza aver ancora accumulato il capitale necessario all'acquisto.

Su questo non c'è molto altro da dire, tranne che il mero possesso di un bene dal valore d'uso necessario (es. l'abitazione) potrebbe a tutti gli effetti essere considerato una "rendita": vivere in una casa ereditata mi evita una spesa di circa 600 euro al mese di affitto o di rata mutuo che affronterei se non avessi quel bene.

Più interessante invece la dinamica del debito in in'impresa commerciale.

Immaginiamo una persona che ha un capitale di 100 euro. Intende usare questo capitale per produrre della merce e rivenderla con un guadagno che si aspetta essere di circa 30 euro passato un anno. 

Mentre ragiona su questo l'imprenditore nota che ci sarebbe ulteriore mercato. Se potesse avere in mano altri 100 euro potrebbe mettere in produzione altrettanta merce e venderla sempre con un ricarico del 30%.

Scopre così che una banca gli presterebbe 100 euro per un interesse del 5% annuo. Gli conviene accettare? Sì. Perché, posto che non abbia sbagliato previsioni, a fine anno avrà un utile di 55 euro (il doppio di 30 meno i 5 di interessi) anziché di soli 30.

Ma se avesse ancora mercato per altri 100 euro allo stesso tasso? Continuerebbe a prendere in prestito fino a quando gli utili prodotti dall'ultimo euro preso in prestito saranno annullati dagli interessi passivi e l'utile comincerà a decrescere. A quel punto si fermerà.

Nella nostra ipotesi (30% di ricarico, 5% di interessi) posto che le condizioni non cambino, quel punto si raggiunge dopo aver preso in prestito qualcosa intorno ai 500 e i 600 euro, per un utile di circa 105 euro. Da quel momento in poi l'utile comincia a decrescere (già a 700 euro presi in prestito l'utile scende da 105 a 100) e non conviene più ricorrere al credito a quelle condizioni.

Quindi il nostro imprenditore intelligente si fermerebbe lì, dopo aver preso in prestito ciorca 550 euro. E, se non si accorgesse lui del fatto che ora basta, ci penserà la banca a farglielo capire negandogli il prestito perché economicamente non giustificato.

Questa, e null'altro, è la ragione per cui le imprese sono tutte indebitate: hanno intravvisto una possibilità di guadagno e hanno preso soldi in prestito fino a quando si sono convinti che non avrebbero più potuto sostenere ulteriori costi copribili con il guadagno che si attendevano.

E' ingenuo pensare che la gente sia stupida e non sia in grado di fare questi calcoli. Finché l'imprenditore ha un'opportunità di guadagno investe ricorrendo al credito o cercando nuovi soci. Chi non lo fa perde delle opportunità, e chi fa male i conti e sbaglia le previsioni lascia le penne in quel mondo darwiniano che è l'economia.

Nella prossima puntata si parlerà del credito come denaro corrente e di altre cose che mi verranno in mente.

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