martedì 16 aprile 2013

Critica alla teoria del signoraggio bancario - parte terza: "politica monetaria" come eufemismo per "redistribuzione"

Abbiamo già definito la moneta come una merce il cui valore di scambio serve come unità di misura del valore di scambio di tutte le altre merci. Abbiamo anche visto che in alcuni casi la merce-moneta conserva un proprio valore d'uso: l'oro ad esempio, oltre ad essere moneta, potrebbe essere utilizzato da un orafo per fabbricare gioielli. Nell'economia moderna è il credito ad essere utilizzato come moneta.

Una prima caratteristica che salta all'occhio - quando si osserva la moneta-credito - è il fatto che essa è priva di un valore d'uso proprio: in altre parole è una merce senza valore d'uso ma con un valore di scambio. La moneta moderna cioè è un "pagherò" il cui valore di scambio dipende dalla solvibilità del debitore (stato, banca o privato che sia). Venendo a mancare la solvibilità, la moneta moderna non ha più alcuna utilità intrinseca.

Una seconda caratteristica, anch'essa legata all'assenza di valore d'uso, è che la moneta moderna è facilmente replicabile: se per coniare monete metalliche ho bisogno di scoprire una miniera e pagare dei minatori e dei fabbri, per stampare delle banconote o un libretto di assegni (gli assegni sono moneta) mi serve solo una tipografia. La moneta elettronica ha abbattutto ulteriormente i costi di fabbricazione del "medium" monetario: rendere disponibili 10 euro sul tuo bancomat costa meno che stampare 10 euro su della carta filigranata e dartele in mano.

La facilità di produrre la moneta moderna è alla base della cosiddetta "politica monetaria". La politica monetaria può essere definita l'insieme di decisioni volte ad aumentare o diminuire la massa monetaria in circolazione per ottenere gli effetti voluti sull'economia di un paese.

Obiettivo di questo articolo è quello di studiare questi meccanismi con esempi semplici. Vedremo anche come il termine "politica monetaria" sia solo un'illusione. Ossia un nome gradevole da utilizzarsi quando, per qualche sorta di tabù, non si vuole utilizzare pubblicamente il termine "redistribuzione" (questa sì, la vera artefice degli effetti addebitati alla politica monetaria).

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Spieghiamo la politica monetaria con un esempio. Abbiamo una famiglia di 5 persone: padre che lavora, madre e tre figli mantenuti. La famiglia consuma 1 kg di farina al giorno, 2 etti a testa. Il papà lavorando produce e porta a casa il chilo di farina che serve per il giorno dopo. Così all'infinito.

A un certo punto il padre legge Keynes e gli viene un'idea geniale: prende il pacco di farina e ci scrive sopra "2 kg". Dopodiché stabilisce che la razione procapite è di 4 etti, si prende la sua razione per primo e la consuma. Ovviamente la razione degli altri diminuisce in proporzione (da due etti a un etto e mezzo), ma non sanno ancora di essere stati raggirati. Insomma facciamo finta che non se ne accorgano per andare avanti con l'esempio.

Il giorno dopo il padre ha molta più energia perché ha mangiato di più. Lavora di più, è più efficiente, la sua produttività è raddoppiata e a fine giornata porta DAVVERO a casa 2 chili di farina! Il trucco ha funzionato e nessuno si accorgerà di nulla. Alla fine staranno tutti meglio, perché da quel momento in poi tutti dispongono di una razione doppia di farina e la produttività del padre sarà raddoppiata definitivamente.

Riflessioni:

1) A monte c'è il fatto che nella famiglia si era consolidata un'allocazione sbagliata delle risorse. Il padre, lavorando, aveva davvero bisogno di una razione doppia rispetto agli altri membri della famiglia. I quali difatti sono sopravvissuti alla nottata con 1/4 di razione in meno ciascuno. Il trucco ha consentito al padre di consumare la razione giusta e questo ha portato dei benefici a tutta la famiglia.

2) La produttività del padre non è aumentata perché ha scritto "2 kg." sul pacco di farina. E' aumentata perché ha consumato il doppio di farina. Avrebbe ottenuto esattamente lo stesso effetto semplicemente convincendo moglie e figli che a lui serviva una razione maggiore. Se ha deciso di barare, lo ha fatto perché evidentemente riteneva di non poter convincere gli altri membri della famiglia del fatto che fosse necessaria una redistribuzione a suo vantaggio. Ma la cosa che ha aumentato la produttività non è il pennarello usato per scrivere "2 kg.", è la decisione di redistribuire il consumo di farina in modo più efficiente.

3) Gli altri membri della famiglia hanno creduto alla scritta sul pacchetto. Questo non è automatico. Se fossero stati consci della possibilità che la scritta potesse non essere veritiera si sarebbero comportati diversamente: si sarebbero fiondati sul chilo di farina per prendere per primi la loro razione doppia. A quel punto non è nemmeno detto che al padre non sarebbe toccata una razione minore, abbattendo la sua produttività...

4) La redistribuzione è stata effettuata su un fattore produttivo. Se il padre, anziché scrivere 2 kg sul pacco di farina, avesse scritto "40" su un pacchetto di sigarette, non ci sarebbe stato alcun aumento di produttività.

5) La redistribuzione è stata effettuata in favore di un membro produttivo della famiglia e ne ha effettivamente aumentato la produttività in modo proporzionale: se l'indomani, dopo aver consumato due etti di farina in più, il papà avesse prodotto meno di 1,200 kg di farina, sarebbe stato meglio non redistribuire nulla. Oppure se il padre avesse usato i due etti di farina in più a sua disposizione per produrre qualcosa di inutile oppure per spenderseli al videopoker, la cosa migliore sarebbe stata quella di lasciare le razioni come erano prima.


Quindi, riassumendo, la politica monetaria in realtà è solo un modo per effettuare una redistribuzione delle risorse senza ammetterlo chiaramente. Perché funzioni è necessario che la massa degli operatori economici non sappia ciò che sta succedendo e non ne possa prevedere gli effetti, altrimenti li anticiperebbe in senso contrario, diminuendo l'efficacia della politica messa in atto.

In presenza poi di una politica monetaria espansiva è necessario che la liquidità non venga immessa nel sistema "a pioggia", ma che finisca per beneficiare settori dell'economia che producono occupazione. Ed è ovvio che si parla settori produttivi nazionali: se la maggiore liquidità serve per aumentare solo le merci di importazione è un po' come se il padre vendesse i due etti di farina in più per comprare della frutta. Aumenterebbe solo il reddito del fruttivendolo, mentre la quantità di farina da lui prodotta resterebbe invariata.

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Normalmente quando si parla di politica monetaria espansiva si pensa agli Stati Uniti del 1929. 

La nostra economia è un po' diversa. Anzitutto rispetto al 1929 gli operatori economici sanno ciò che comporta un aumento di liquidità e ne anticipano gli effetti. Non solo: li anticipano in tempo reale e con effetto immediato. Questo mi fa pensare che non servirà a nulla nascondere la redistribuzione dietro la maschera monetaria, ma che eventualmente questa vada effettuata come tale, e col suo nome vero.

Inoltre l'economia USA del 1929 era industriale e agricola. I consumi da "rilanciare" erano spesso beni di prima necessità la cui domanda è molto rigida (non si risparmia sul mangiare se non costretti). La nostra economia (come Italia) volendo ci si avvicina. Abbiamo in effetti un settore alimentare importante e restiamo uno dei paesi più industriali d'europa. Ma in generale le principali economie occidentali producono servizi e finanza e importano merci da fuori. Anche quando le produciamo, le merci, si tratta spesso di merci a domanda elastica. Merci delle quali possiamo spesso fare a meno soprattutto se prevediamo "vacche magre" (auto nuova, TV nuova, elettrodomestico nuovo...). Non darei per scontato che un'espansione monetaria produrrebbe sui consumi gli stessi effetti che ha prodotto nel 1929.

Infine non va dimenticato che la BCE da tempo sta iniettando liquidità nel sistema bancario. E' noto che ha acquistato titoli italiani e credo anche spagnoli e mantiene i tassi bassissimi. In pratica sta creando moneta. Solo che la moneta non viene rigirata dalle banche verso il sistema produttivo.

La nuova moneta creata espone sul piano debitorio la BCE e gli stati che ne sono garanti, così il tasso di interesse del debito pubblico di quegli stati (con velocità diverse) aumenta. E si arriva al paradosso che le banche preferiscono investire la liquidità, ottenuta grazie al debito pubblico, nel debito pubblico stesso anziché prestarlo alle aziende, provocando un effetto di loop.

Alla prossima.

giovedì 4 aprile 2013

Critica alla teoria del signoraggio bancario - parte seconda: altre definizioni

Salario, Rendita e Profitto

Il salario:

Definiamo "salario" il compenso erogato a un individuo in cambio del suo lavoro. Che sia in denaro o in natura, il salario a prima vista potrebbe essere considerato il prezzo della merce: il lavoratore la produce, ne entra in possesso e la cede immediatamente a qualcuno, ad esempio il proprietario dell'azienda in cui lavora, in cambio del salario.

Ma con alcune cautele. Anzitutto bisogna capire cosa distingue il salariato da un artigiano: il salariato utilizza mezzi di produzione che non sono di sua proprietà. L'artigiano è proprietario dei mezzi di produzione che utilizza (fatte salve le rendite, vedi oltre).

Inoltre - e di conseguenza - il salariato produce merce per un certo valore e riceve quel valore come salario. Poi va sul mercato e cerca di ricomprare la stessa merce che aveva prodotto (merce-denaro-merce) scoprendo che costa di più di quanto gli era stata pagata come salario...

Questo non accade all'artigiano né tanto meno al proprietario. Quest'ultimo paga il prezzo della merce - il salario - con del denaro. Entra in possesso della merce e la rivende per più denaro rispetto a quello speso per il salario (denaro-merce-denaro). E' come se il valore di scambio della stessa merce cambiasse a seconda di chi ne è in possesso: minore quando è prodotta dal salariato, maggiore quando è venduta dall'impresa.

La rendita:

E' il compenso che convince il proprietario di un fattore produttivo (attrezzature, immobili, terreno, denaro) a darlo in utilizzo.
La rendita per sua natura è indipendente dalla reale redditività del fattore produttivo dato in uso: un ufficio viene affittato per 2.000 euro al mese a prescindere dal fatto che l'azienda che lo utilizza sia in utile o in perdita. Allo stesso modo la banca e gli obbligazionisti chiedono gli interessi sul capitale prestato a prescindere dal bilancio dell'azienda debitrice (il che li rende differenti dai soci, ad esempio, che incassano dividendi, cioè utili, e appianano perdite).

La rendita quindi deriva dalla mera proprietà di un bene. Chi utilizza quel bene - salariato e imprenditore - deve produrre quantitativi di merce del valore sufficiente non solo a mantenere i fattori produttivi variabili, ma anche a coprire la rendita fissa.


Il profitto:

E' ciò che rimane a un imprenditore dopo aver decurtato dai ricavi delle vendite i costi della produzione, ad esempio rendite e salari compreso il suo, il costo dell'usura dei mezzi produttivi (ammortamento), i costi delle materie prime etc. Alla fine resta il profitto, che si configura come compenso per il cosiddetto rischio di impresa e l'intuizione imprenditoriale.

Dinamiche sociali:

Rendite, profitti e salari potrebbero essere percepiti dalla medesima persona. Anzi si tratta della normalità dei casi nella nostra parte del mondo: un salariato potrebbe essere proprietario di una seconda casa che dà in affitto, un professionista percepisce salario e profitto in un'unica parcella ma paga l'affitto per il suo studio...

Ma una cosa va detta subito: ciò che in un ciclo produttivo paga i salari, le rendite e i profitti è solo ed unicamente il valore di scambio della merce prodotta. Non inventativi perciò nulla di strano e non date retta a teorie metafisiche. E' talmente banale che ritengo di non doverlo nemmeno dimostrare, e spudoratamente rovescio l'onere della prova.

Dato che il valore della merce è quello, e dato che va diviso in tre parti, i percettori di salario, di profitti e di rendite tendono a massimizzare la componente preponderante del proprio reddito. Al salario perciò conviene comprimere profitti e rendite per aumentare la propria fetta. Il profitto può massimizzare se stesso solo quando comprime a dovere rendite e salari, eccetera.

Questo interesse alla reciproca marginalizzazione e compressione produce oggettivamente una dialettica di tipo conflittuale. Questa dialettica è potenzialmente esplosiva nelle società in cui salariati, percettori di profiitti e redditieri sono tre classi rigidamente distinte, e non sono certo io a scoprire che ci sono state rivoluzioni e colpi di stato.

Tant'è che nella storia si possono identificare chiaramente i tipi di società e le ideologie che hanno privilegiato una componente rispetto all'altra: le rendite durante il feudalesimo, il profitto nel capitalismo proprio come emancipazione della borghesia dall'aristocrazia feudale, i salari col socialismo.

  
Il credito

Definizione:
Un prestito (o credito) è denaro dato in uso ad altri per essere restituito, maggiorato, a distanza di tempo. E' come se il denaro oggi fosse una merce diversa dal denaro domani, o, più precisamente, il valore di scambio della merce "denaro-adesso" è superiore al valore di scambio della merce "denaro-futuro".

Queste dinamiche risulterebbero incomprensibili senza un postulato: il denaro è proprietà di qualcuno, e questo qualcuno bada al proprio interesse economico.

Quindi escludiamo dalla discussione i casi in cui il babbo presta soldi al figliolo perché si compri casa e limitiamo la discussione al prestito oneroso. Così possiamo esaminare le ragioni per cui il denaro futuro ha un valore di scambio inferiore al denaro presente (cioè serve una quantità maggiore di denaro futuro per comprare del denaro presente).

1) Rinuncia: chi presta denaro a qualcuno rinuncia ad usarlo lui stesso per tutta la durata del prestito. Questa rinuncia ha un costo che viene fatto pagare al debitore. Senza il pagamento di questo costo non esistono ragioni per prestare denaro a qualcuno, se non quelle di ordine affettivo o filantropico da noi escluse precedentemente.

2) Rischio: chi si priva momentaneamente del possesso di una quantità di denaro richia di non rivederlo più per intero. La probabilità di questo rischio potrebbe essere calcolata e trasformata in un vero e proprio costo con una certa precisione (le banche sui grandi numeri lo fanno).

3) Lucro: se il denaro prestato serve al debitore per avviare un'attività economica, chi presta il denaro intende prendere parte agli utili senza entrare in società.

Va notato che il tempo è un fattore fondamentale: più lunga è la durata del prestito e più elevati diventano i "costi" collegati ai punti 1 e 2. La rinuncia alla liquidità è più pesante quando dura tre anni anziché uno. Lo stesso vale per il rischio di insolvenza del debitore.

Interessi:

Il compenso per il prestito del denaro prende il nome di "interesse" e normalmente viene stabilito con un coefficiente percentuale - chiamato "tasso di interesse" - per una certa durata.

Un tasso di interesse del 5% all'anno significa che prestando 100 euro per la durata di un anno, alla scadenza mi dovranno essere restituiti 105 euro. Il che significa anche che 100 euro di capitale, con scadenza a un anno, in data odierna valgono meno (95,24 euro circa cioè 100÷1,05). Operazione quest'ultima che prende il nome di "sconto".

Non esiste un tasso negativo: il tasso di interesse è sempre superiore allo zero.

Rischi intesi come "costo" per chi presta:

Come regola generale la durata del prestito, così pure il rischio di insolvenza, agiscono negativamente sull'interesse. Questa azione negativa è calcolabile con sorprendente precisione nei grandi numeri, ma qui il discorso diventerebbe troppo tecnico anche per me.

Comunque per spiegare il concetto: io potrei accettare un tasso del 5% per prestare i soldi allo Stato per sei mesi, ma se la durata fosse di 5 anni vorrei un tasso più elevato perché - penso - magari ne avrò bisogno. O se il debitore non fosse lo stato ma una società privata vorrei un tasso più elevato ancora, perché lo riterrei meno affidabile.

In altre parole l'aumento del rischio e della durata abbattono la profittabilità del prestito, agendo come una sorta di tasso negativo. Potrei addirittura non accettare nessun tasso per quanto elevato e voler restare in liquidità, perché il rischio di perdere il capitale è immenso.

Sulla profittabilità del prestito, infine, agisce negativamente anche l'inflazione. In presenza di tassi di inflazione più elevati è logico aspettarsi tassi di interesse più elevati.

Perché ci si indebita?

Come detto tralasciamo il caso del debito per povertà.

Ci si indebita principalmente per due ragioni: il privato si indebita per poter acquistare merci - in genere durevoli - dal valore troppo elevato per il suo risparmio. Il credito gli consente di ottenere il beneficio della proprietà del bene senza aver ancora accumulato il capitale necessario all'acquisto.

Su questo non c'è molto altro da dire, tranne che il mero possesso di un bene dal valore d'uso necessario (es. l'abitazione) potrebbe a tutti gli effetti essere considerato una "rendita": vivere in una casa ereditata mi evita una spesa di circa 600 euro al mese di affitto o di rata mutuo che affronterei se non avessi quel bene.

Più interessante invece la dinamica del debito in in'impresa commerciale.

Immaginiamo una persona che ha un capitale di 100 euro. Intende usare questo capitale per produrre della merce e rivenderla con un guadagno che si aspetta essere di circa 30 euro passato un anno. 

Mentre ragiona su questo l'imprenditore nota che ci sarebbe ulteriore mercato. Se potesse avere in mano altri 100 euro potrebbe mettere in produzione altrettanta merce e venderla sempre con un ricarico del 30%.

Scopre così che una banca gli presterebbe 100 euro per un interesse del 5% annuo. Gli conviene accettare? Sì. Perché, posto che non abbia sbagliato previsioni, a fine anno avrà un utile di 55 euro (il doppio di 30 meno i 5 di interessi) anziché di soli 30.

Ma se avesse ancora mercato per altri 100 euro allo stesso tasso? Continuerebbe a prendere in prestito fino a quando gli utili prodotti dall'ultimo euro preso in prestito saranno annullati dagli interessi passivi e l'utile comincerà a decrescere. A quel punto si fermerà.

Nella nostra ipotesi (30% di ricarico, 5% di interessi) posto che le condizioni non cambino, quel punto si raggiunge dopo aver preso in prestito qualcosa intorno ai 500 e i 600 euro, per un utile di circa 105 euro. Da quel momento in poi l'utile comincia a decrescere (già a 700 euro presi in prestito l'utile scende da 105 a 100) e non conviene più ricorrere al credito a quelle condizioni.

Quindi il nostro imprenditore intelligente si fermerebbe lì, dopo aver preso in prestito ciorca 550 euro. E, se non si accorgesse lui del fatto che ora basta, ci penserà la banca a farglielo capire negandogli il prestito perché economicamente non giustificato.

Questa, e null'altro, è la ragione per cui le imprese sono tutte indebitate: hanno intravvisto una possibilità di guadagno e hanno preso soldi in prestito fino a quando si sono convinti che non avrebbero più potuto sostenere ulteriori costi copribili con il guadagno che si attendevano.

E' ingenuo pensare che la gente sia stupida e non sia in grado di fare questi calcoli. Finché l'imprenditore ha un'opportunità di guadagno investe ricorrendo al credito o cercando nuovi soci. Chi non lo fa perde delle opportunità, e chi fa male i conti e sbaglia le previsioni lascia le penne in quel mondo darwiniano che è l'economia.

Nella prossima puntata si parlerà del credito come denaro corrente e di altre cose che mi verranno in mente.