martedì 27 luglio 2010

L'instabilità afgana stabilizza l'Iran... O forse no?


Le rivelazioni di Wikileaks hanno riguardato anche l'Iran, in particolare operazioni della Repubblica Islamica in Iraq e in Afghanistan. Lo si sospettava già da tempo ma la cosa si arricchirebbe di dettagli: alleanza  in Afghanistan con Gulbuddin Hekmatyar, taglie sui soldati dell'esercito afgano (1.700$ per morto) e sui soldati americani (3.500$ per morto), aiuti economici di varia entità. Sul Daily Telegraph c'è un articolo.

In quella plancia di Risiko che è il Pamir afghano le alleanze cambiano spesso, e Hekmatyar ne è la dimostrazione vivente. Capo della resistenza afghana e alleato dei pakistani ai tempi dell'invasione sovietica, poi alleato di Massoud aiutato dalla Repubblica Islamica contro i talebani, e ora di nuovo insieme ai talebani come intermediario degli aiuti dell'Iran contro gli americani. Nel tempo libero, gran produttore di eroina.

La scelta iraniana sul piano strategico è comprensibile. Un Afghanistan e un Iraq instabili rendono molto improbabile un attacco all'Iran. Gli USA oggi non hanno la forza militare né politica per un'opzione di quel tipo (è possibile l'opzione "serba" ma ne parlerò in un post futuro).

Tuttavia la strategia di tensione in Afghanistan e in Iraq ha due controindicazioni.

La prima è che l'instabilità della regione si sta estendendo anche al territorio iraniano: in parte nel Kurdistan dove non c'è un aspetto militare ma ci sono stati molti scioperi di recente, ed è durissima la repressione del regime; poi in modo molto più evidente nel Sistan-Baluchistan, sul confine afghano-pakistano. Qui è attiva la formazione terroristica sunnita del Jundullah che ha appoggi nel Baluchistan pakistano (un po' come i talebani hanno appoggi Pashto oltre la linea Durand).

La formazione è responsabile di due gravi attacchi terroristici a distanza di un anno (vedi qui e qui) contro civili e pasdaran nella città di Zahedan, capoluogo del Baluchistan iraniano.

Ora, se è molto probabile che gli USA non siano in grado di invadere l'Iran, impantanati come sono tra crisi finanziaria, Iraq e Afghanistan, è anche certamente vero che la Repubblica Islamica non è in grado di affrontare simultaneamente un'instabilità stile afgano nel Baluchistan, una gravissima crisi di legittimità interna, e le pesanti sanzioni internazionali.

Sotto questo aspetto l'acuirsi dell'apartheid religioso durante l'amministrazione Ahmadinejad aggrava la situazione. In Iran ci sono 14 milioni di cittadini sunniti ma al Majles c'è un solo deputato sunnita. Non  è nemmeno eletto, perché nessun candidato sunnita passa le forche caudine del Consiglio dei Guardiani, ma è presente solo in rappresentanza della sua confessione. L'essere sunnita preclude la carriera politica ad alti livelli, e quindi nega anche importanti amicizie politiche, necessarie agli affari e agli investimenti in Iran come altrove.

Le bombe del Jundullah sono seguite a manifestazioni militar-religiose dei pasdaran sciiti nella grande moschea della città. Va detto che nelle città a maggioranza sunnita normalmente la moschea principale ("Jaméh" - مسجد جامع) è appunto sunnita. La presenza di sciiti, arrivati da fuori città per mettere in atto rituali simili a quelli degli orangisti a Belfast (ad esempio un mullah sciita dal "minbar" di una moschea sunnita che maledice i califfi sunniti Abubakr, Omar e Othman) ha certamente fatto la sua parte nell'esasperare gli animi.

Al resto ci pensano i servizi segreti pakistani finanziando Jundullah. La recente consegna del capo di Jundullah, Abdolmalek Rigi, avvenuto subito dopo il primo attentato di Zahedan, sembrò sulle prime un gesto di distensione. In realtà a posteriori si trattò di una situazione "lose-lose" per la repubblica islamica, poiché la condanna a morte era inevitabile ed avrà certamente fruttato nuove affiliazioni alla formazione. Ci sarebbe voluta una politica di ben altro profilo.

Infine una nota storica: in Iran è già successo che un'estesa rivolta sunnita, un governo debole e un'invasione straniera facessero cadere una dinastia. Insomma riassumendo: la politica di destabilizzazione oltre confine può risultare mortale.

Il secondo problema della strategia riguarda l'opinione pubblica iraniana, che è fortemente anti-talebana e anti-irachena anche nelle fasce politicamente più conservatrici.

Ritengo che la pronta smentita di Ahmadinejad riguardo alle pubblicazioni di Wikileaks vada vista principalmente in chiave di politica interna, e forse le recenti pubblicazioni in qualche modo spiegano anche l'oscuramento di Wikileaks filtrato nel 2009 dal provider nazionale iraniano.

Ai tempi sembrò molto strano: le rivelazioni del sito sulle attività dei servizi segreti USA volte a destabilizzare il paese erano un utile argomento di propaganda del regime in chiave anti-opposizione. Ora, a distanza di un anno, l'oscuramento assume perfettamente senso perché, ripeto, la collaborazione coi talebani per il governo iraniano è molto imbarazzante soprattutto sul piano della politica interna.

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