giovedì 29 luglio 2010

L'età dell'informazione e la destrutturazione aziendale



Domenica parto per le vacanze, starò via 15 giorni. Non so se avrò tempo di scrivere ancora qualcosa nel frattempo perciò vi lascio con un post lungo e impegnativo.

A dire il vero sto barando. Feci questo stesso post il 17 agosto del 2008 su un newsgroup, ne seguì un'interessante discussione che qui ometto, ma che vi invito a recuperare su google groups.

Insomma oggi non si parla dell'Iran. Credo di essere l'unico capace di fare un offtopic sul suo stesso blog! Ciao a tutti.


***

A) Di cosa si parlerà in questo post (e di cosa non si parlerà):

Si è spesso parlato di internet su questo NG al punto da considerarlo un topic ricorrente.

In generale le discussioni sull'argomento si sono incentrate sui "pros & cons" di internet come mezzo di comunicazione e di informazione. Un aspetto importante ma anche noioso, perché con lo sguardo rivolto verso la schiena. Un'ottica di retroguardia insomma, che non esaurisce affatto la questione.

Si rischia oltretutto di impantanarsi in un "contenutismo" per nulla utile a un'analisi corretta della reale portata del medium internet. Dire infatti che un medium può essere buono o cattivo a seconda di come lo si usa o di ciò che se ne fa, citando McLuhan, equivale a dire che una pistola funziona meglio o peggio a seconda di chi stai cercando di ammazzare: è una sciocchezza.

Ho notato che, quando si parla di internet esclusivamente come mezzo di espressione e di informazione, alla fine si finisce lì, per quanto involontariamente. Questo post invece cercherà di analizzare internet come fattore produttivo nell'industria e nei servizi. Obiettivo ambizioso, ma tutto sommato è meglio sbagliare perché si è ecceduto.

B) Alcuni riferimenti bibliografici:

Per certi versi si macchia di "contenutismo" anche il libro di Carlo Formenti "Cybersoviet", che ho letto durante le vacanze. Lì però la cosa è tollerabile, in quanto il testo non ha l'obiettivo di esporre una "teoria generale dei media elettrici" (come definiti da McLuhan: tutti quei media che usano l'elettricità come vettore, e caratterizzati dal fatto che "il messaggio è più veloce del messaggero").

Piuttosto Cybersoviet ha l'indubbia qualità di spingerti ad ulteriori approfondimenti. Personalmente ad esempio un testo che andrò sicuramente a recuparare sarà "L'età dell'informazione" di Manuel Castells. Un altro testo, ma qui Formenti è innocente, sarà - sperando di trovarlo - "La città nella storia" di Lewis Mumford (a fine post sarà più chiaro il nesso).

C) Internet come mezzo di produzione:

Andando al punto, ritengo che parlare di internet come acceleratore di un sistema produttivo post-fordista abbia maggiori possibilità di evitare il rischio di decadere nel contenutismo. Difatti si tenterebbe di analizzare uno strumento di organizzazione produttiva in modo oggettivo, cioè economico, e non come una cosa attraverso la quale astrattamente "si può fare del bene o del male", a seconda se lo usa Hitler o Gandhi. Con buona pace per la stupida pubblicità della telecom.

Ovviamente la locuzione "elemento di un sistema produttivo post-fordista" è volutamente generico: con questo voglio chiarire che non ho nessuna intenzione di parlare di e-business (la cui importanza nel complesso a tutt'oggi resta marginale) ma dell'uso di internet proprio nelle produzioni "tradizionali".

Ma dato che, ahimé, non ho ancora letto Castells (che a quanto pare è fondamentale in questo tipo di analisi), mi tocca procedere con il metodo induttivo: generalizzando cioè la mia esperienza lavorativa personale sperando di azzeccarci. Il lato positivo della questione è che il mio è un osservatorio abbastanza privilegiato, dato che mi occupo di software per gestione aziendale in uso presso una molteplicità di aziende in settori diversi.

D) Metodo induttivo, ovvero il mio mestiere:

Una parte del mio lavoro consiste nella progettazione e rilascio delle modifiche, migliorie ed aggiornamenti da apportare al software gestionale che l'azienda in cui lavoro produce.

Facciamo una riunione, io dico a un programmatore cosa serve al cliente, lui scrive il codice, io testo il risultato, e se tutto va bene distribuiamo (l'ho fatta facile, ma chi conosce il lavoro sa che si tratta di una cosa parecchio dolorosa: mai presentarsi disarmati e senza il giubbotto antiproiettile a una riunione con un commerciale, un analista e un programmatore).

Oltre a questo mi occupo della formazione dei clienti all'uso del gestionale, e di assistenza in caso sorgessero problemi e anomalie. In teoria la mia opera di assistenza e formazione consisterebbe solo nell'aiutare un utente, che dovrebbe già conoscere il suo lavoro, a farlo col nostro programma. In genere si tratta di commercialisti, consulenti del lavoro, ragionieri aziendali, responsabili del magazzino, responsabili della produzione, responsabili del personale, responsabili commerciali, etc.

Nella pratica invece mi tocca quasi sempre insegnare all'utente anche il suo lavoro, che spesso conosco meglio di lui per motivi sui quali non sto a divagare ma che sono intuibili.

E) Potrei anche starmene a casa:

Con l'evoluzione raggiunta dai "media elettrici", già oggi nessuna delle mansioni che svolgo richiederebbe la mia presenza fisica in un ufficio in certi orari, e nemmeno sul luogo dove dovrebbe svolgersi il servizio stesso, cioè dal cliente.

Le comunicazioni coi colleghi programmatori potrebbero avvenire via videoconferenza, o banalmente per telefono, e per le testature è sufficiente che il collega programmatore mi mandi l'eseguibile del programma per posta elettronica.

Oltre metà dei nostri clienti risiede in luoghi non raggiungibili entro la giornata, il che significa che la vicinanza geografica con il luogo in cui si eroga il servizio è già ora irrilevante. Insomma tutta questa gente è servita da remoto.

Solo nel corso del 2008 ho fatto formazione a 3 clienti residenti molto lontano dalla nostra sede aziendale, e l'ho fatto senza muovermi dall'ufficio: ho preso possesso del loro mouse e della loro tastiera via internet usando programmi open source (UltraVNC) oppure usando siti internet gratuiti appositamente creati per questi servizi (Logmein per esempio, che su desktop Windows Vista sembra funzionare meglio di UltraVNC). Per i super-profani: io muovo il mouse stando seduto nella mia postazione in ufficio, ma lavoro sul PC de cliente e non sul mio.

Lo stesso dicasi per l'assistenza: la signora Marisa chiama, io prendo possesso del suo PC da remoto, al telefono faccio due battute simpatiche per mantenere vivo il lato umano mentre risolvo il problema, e poi si fattura.

Oramai lo facciamo per tutta l'utenza, anche per chi si trova a due isolati. Lo stesso per gli aggiornamenti normativi: un tempo ci recavamo fisicamente presso gli utenti con il CD dell'aggiornamento da installare (anzi, coi floppy: l'azienda ha 22 anni). Oggi invece mando un email a tappeto a tutti quelli in regola coi pagamenti dicendo di lanciare la procedura di Live Update prevista nel gestionale. Il resto lo fa il programma.

F) Anche gli altri colleghi potrebbero restarsene a casa:

Riassumendo: la mia azienda ha 15 dipendenti, e non esiste alcuna ragione di efficienza economica perché queste 15 persone debbano lavorare sotto lo stesso tetto per otto ore al giorno e inquadrati con un contratto nazionale metalmeccanici. Per nessuna delle mansioni da loro svolte.

Ciascun collega potrebbe lavorare da casa propria semplicemente comunicando con gli altri attraverso l'uso del PC, telefono, mail e quant'altro, e ciò potrebbe accadere già oggi nel senso che non sto parlando i fantascienza o scenari futuri.

Ogni collega potrebbe operare sull'oggetto del servizio che gli compete da remoto: utilizzando le competenze immagazzinate nel suo sistema nervoso centrale che viene "esteso" dai media elettrici in modo da poter teoricamente abbracciare l'intero pianeta (immagine azzeccatissima questa di McLuhan).

G) Un sacco di altra gente potrebbe restarsene a casa:

Questa possibilità di "destrutturare" l'azienda non è solo una carattersitica del mio settore. Come dicevo il mio è un osservatorio abbastanza privilegiato il che mi fa riconoscere questa tendenza anche in altri settori.

I commercialisti ad esempio (soprattutto quelli "erranti" che si recavano presso il cliente per registrargli la contabilità) desiderano avere questa possibilità da molto tempo. Oggi ce l'hanno, e per un gestionale dare la possibilità di lavorare senza muoversi è un plus assoluto.

In generale tutti i settori economici che vanno sotto la definizione di "servizi" sono nelle stesse condizioni, con poche eccezioni. I servizi di trasporto ad esempio sono un'eccezione, ma solo per quanto riguarda le unità mobili, le quali fra l'altro subiscono la fortissima concorrenza del medium elettrico: se uso internet non mi muovo fisicamente.

Il reparto amministrativo poi è sempre destrutturabile. Nell'industria, ad esempio, il lavoro materiale viene svolto necessariamente in strutture adibite a questo: officine, laboratori, etc. Ma diversi miei clienti hanno gli uffici amministrativi lontanissimi dal luogo di produzione e dai magazzini, qualcuno persino in altri paesi.

Un ragioniere in qualunque parte del mondo, e un certo numero di computer messi in rete e attrezzati con lettori di codice a barre, sono oggi in grado di gestire una tale movimentazione di merci e di denaro che molti fanno ancora fatica a concepire pienamente.

Anche nel tessuto delle piccole imprese, quelle con una o due addette amministrative (inutile negare la preponderante presenza femminile) si sente fortissima l'esigenza di "far lavorare la signorina da casa". Vuoi per una sopravvenuta maternità, vuoi perché i figli crescono e serve il part time.

E così Abolrish installa (quasi sempre da remoto) sul PC domestico della signora un client del programma di contabilità, lo punta all'indirizzo internet del PC dell'azienda attraverso una certa porta, e la signora registra la contabilità ed emette le fatture senza mai andare in ufficio. Per mesi.

H) Un po' di fantascienza non guasta:

Il prossimo passo probabile, anche se embrionale? Un accordo tra vari produttori di gestionali per creare un tracciato per l'emissione di fatture al quale riferirsi tutti quanti.

In questo modo diventa superflua l'emissione cartacea di fatture e il loro invio (sebbene l'invio già avvenga molto spesso via mail in formato PDF). Ma con un tracciato unico si ottiene qualcosa di meglio.

Chi emette la fattura (o qualunque documento di valenza contabile e aziendale) lo fa su un tracciato che può essere direttamente importato nell'archivio del gestionale di chi riceve, e potrebbe anche essere automaticamente registrato in contabilità. Questo sistema è già adottato ad esempio da alcuni supermercati che richiedono che il fornitore emetta la fattura su un tracciato che loro possono importare.

L'archiviazione ottica permette di dematerializzare anche l'archivio fisico, ed è una precisa tendenza del legislatore fiscale italiano. Si parla di un risparmio immenso.

I) I vantaggi in termini produttivi:

Zero movimentazione cartacea, zero movimentazione umana, luogo di lavoro completamente destrutturato e coincidente con l'abitazione del singolo addetto. L'aumento dell'efficienza produttiva legata a una destrutturazione di questo tipo è evidente. I primi risparmi che vengono in mente:

1) Azzeramento dei costi di struttura: non serve un ufficio.

2) Azzeramento dei costi impianto: ad esempio non serve una LAN, perché la rete esiste già esternalizzata ed è internet.

3) Minore costo del personale: la figura di "sistemista aziendale" che si occupa del corretto funzionamento in rete di 15-20 computer verrebbe a trasformarsi al più in un mero amministratore di server.

4) Azzeramento dei costi di trasferimento per recarsi sul luogo dell'intervento o in generale per recarsi in ufficio, con un conseguente abbattimento dei consumi di carburante per locomozione legata al lavoro: argomento sul quale chissà perché siamo di colpo diventati tutti sensibili. E ovviamente per "costi" non intendo solo quelli diretti ma anche quelli legati alle cosiddette "diseconomie sociali": inquinamento, riscaldamento globale, eccetera.

Mi fermo qui perché non ho tempo per scrivere una tesi di laurea. Ma tutto sommato il passaggio da un sistema produttivo fordista ad un sistema produttivo post-fordista di questo tipo ricorda un po' la maggiore efficienza del lavoro salariato rispetto a quello schiavista.

J) E perché non lo fanno tutti?

Perché l'azienda dove lavoro continua ad essere strutturata così com'è, cioè con un ufficio e degli orari di lavoro? Due ipotesi.

Una prima risposta potrebbe essere la necessità di un controllo sul lavoro svolto dagli addetti da parte della proprietà.

Se così fosse, il problema del passaggio ad una produzione di questo tipo potrebbe essere strutturale: il proprietario non tollererebbe l'idea di perdere la sua proprietà, intellettuale o fisica che sia. E così ci riunisce tutti sotto lo stesso tetto per tenere meglio sotto chiave i segreti aziendali. Giusto? Direi di no...

Non nego che l'obiezione possa avere una sua validità, tuttavia la trovo poco rilevante: il controllo sul prodotto finale non ha bisogno del controllo dello spazio fisico in cui il "lavoratore di intelletto" opera.

Per dire: già oggi da me ogni singolo programmatore ha pieno accesso alla documentazione e alle sorgenti del software che produciamo. Io e altri dell'assistenza poi conosciamo i numeri di cellulare, i responsabili, le condizioni commerciali, il fatturato e persino i nomi dei figli e dei gatti di ogni singolo cliente che assistiamo. Il giorno che decido di fregare la mia azienda sarei un concorrente spaventoso.

Dov'è allora il ferreo controllo aziendale? Evidentemente non è ferreo, ma si basa sulla complicità: faccio un lavoro sufficientemente ben pagato, che mi diverte, che non mi stressa e non mi aliena. Finché sto bene chi me lo fa fare di rischiare e buttare all'aria tutto?

Io sto giocando, e sono pagato per farlo. Formenti parla del "rovesciamento dell'etica calvinista del lavoro": il lavoro non più inteso come dovere e sofferenza, ma come piacere e gioco. Si avvicina molto a quello che sto facendo.

Poi c'è la questione del controllo dei tempi di lavoro, di fondamentale importanza nel taylorismo e nel fordismo, ma che nella produzione post-fordista dovrebbe essere lasciato al molto più efficiente autocontrollo del lavoratore stesso, reso opportunamente "autonomo". La produzione non ne soffrirebbe: allo stesso modo e nella stessa misura il passaggio dallo schiavismo al lavoro salariato non ha abbassato la produzione agricola.

Seconda ipotesi. La risposta giusta al perché la mia azienda non è ancora destrutturata, a mio parere, è solo da cercarsi in fattori contingenti dovuti alla compresenza dei due tipi di produzione (fordista e post-fordista).

In questo momento la nostra legislazione del lavoro e del diritto societario è ereditata da ciò che serviva ad una produzione fordista, che soddisfaceva insomma le esigenze sociali ed economiche di una nazione che si guadagnava il pane lavorando in fabbrica e alla catena di montaggio.

Per essere più chiari: come fa la mia azienda a destrutturarsi nel quadro legislativo presente, e restare ancora "azienda"? Per esempio, poniamo che 15 persone lavorino da casa e che non si vedano mai di persona. Come si denuncia questo fatto all'INAIL? Quali e quante sono le "unità locali" - ai fini fiscali - di un'azienda così (de)strutturata? E - cosa ancora più radicale - ha senso parlare ancora di "azienda" nel senso che conosciamo, o siamo di fronte ad una nuova entità produttiva alla quale dare un nome?

Per non parlare poi del cliente. Come la prende lui, abituato ad aver a che fare con una struttura aziendale classica con tanto di segretaria e pianta di ficus, quando si trova di fronte un'entità eterea di questo tipo?

K) Metamorfosi dell'azienda in qualcos'altro:

Ma a questo punto la vera domanda è: per quanto tempo un'azienda rinuncerà all'efficienza offerta dai media elettrici - da internet insomma - per il "feticcio" del lavoro in azienda? Fino a quando si vorrà mantenere in piedi un tipo di produzione che in molte aziende ormai è diventato un mero e costoso rituale? E per quanto tempo la nostra legislazione del lavoro e del diritto societario resteranno principalmente fordiste?

La risposta a quest'ultima domanda è più semplice: la modifica in senso radicalmente neoliberista della legislazione del lavoro italiana negli ultimi 20 anni ad esempio è sotto gli occhi di tutti, e testimonia proprio il tentativo di andare incontro alle esigenze di un paradigma produttivo post-fordista dove - ad esempio - non esistono più distinzioni tra lavoro e tempo libero e tutti sono "autonomi": cioè in balia degli eventi sociali, e controllori inflessibili dei propri tempi di produzione.

Notare che quella in vigore in Italia e in altre nazioni europee era la versione "2.0" della legislazione del lavoro fordista: quella che prevedeva garanzie per la forza lavoro. La versione beta, ricordiamolo, era quella in vigore all'inizio del secolo scorso e prevedeva il lavoro dei bambini in miniera per 12 ore (e in gran parte del globo lo prevede ancora). Oggi siamo nell'epoca della versione beta della legislazione post-fordista, e chi ha orecchie intenda...

Per quanto concerne la sopravvivenza del "feticcio" della struttura aziendale, anche qui giova un esempio vissuto. Ancora due anni fa, sia il responsabile commerciale, sia il respondabile amministrativo della mia azienda erano concordi sul voler privilegiare l'intervento diretto e fisico presso il cliente anziché l'uso dei programmi di remotizzazione: il famoso "lato umano".

A distanza di due anni l'azienda ha aumentato l'utile pur essendo diminuito il numero di addetti. Perché con la remotizzazione si è potuto ridurre i tempi di risoluzione di ogni richiesta di assistenza, e si è potuto aumentare il numero clienti serviti senza aumentare le ore-uomo.

Non più quelle mezz'ore da incubo al telefono con la signora Marisa per spiegarle dove si trovava il tasto "start" di WinXP e che cosa si intendesse per "doppio click", ma un banale intervento da remoto sul suo computer e problema risolto in 3 minuti.

Così in due anni l'efficienza della singola ora di lavoro è aumentata vertiginosamente, e oggi tutti in ditta sono convinti che il "lato umano" si può anche avere telefonando ogni tanto alla signora Marisa per chiederle come sta il suo gatto Oreste...

L) Un tentativo di conclusione:

a) L'uso di internet, accompagnato a una diffusione di schemi produttivi post-fordisti in sempre più settori, consente di fare a meno di una struttura aziendale presente sul territorio in tutte quelle mansioni che lo consentono. Ciò rende economicamente più efficiente la disintegrazione spaziale dell'azienda negli "atomi" umani che la compongono. Lo stesso concetto di "azienda" sembrerebbe destinato a dover essere rivisto.

b) Un'implicazione umana, di interesse sia antropologico che sociale, è la fine della distinzione tra tempo di lavoro e tempo libero. Va notato comunque che il concetto di "tempo libero" è piuttosto recente, ed è strettamente collegato alla presenza di un "tempo in catene": per i membri di una tribù di aborigeni il concetto di "tempo libero" non ha alcun significato. Il tempo libero cioè ha senso solo in presenza di una produzione fordista.

c) Volendo estendere "b" in un modo più rigoroso e generale, il "nodo" della rete non è solo l'Abolrish lavoratore ma *anche* l'Abolrish che socializza e che scrive dell'Iran. Le due figure si sovrappongono completamente e si influenzano a vicenda. In altre parole Abolrish produce se stesso. Qualcun altro preferisce esprimerla come un totale sovrapporsi della sfera pubblica e privata. Ma su questo leggetevi dei libri che è meglio.

Ora, posto che le qualità del nodo "Abolrish", presente della rete globale, provengono dalla sua istruzione, carattere, interessi, e cioè alla fin fine del suo essere se stesso, resta un problema: ha senso ritenerlo un salariato nel senso marxista del termine? Direi di no, perché il mezzo di produzione di Abolrish (cioè il suo se stesso) è da lui inseparabile.

Sembrerebbe, per questi lavoratori, risolversi uno dei problemi che tormentava il Marx dei Manoscritti economico-filosofici: viene a mancare l'alienazione del lavoratore, vista come sofferta separazione tra questi e il frutto del proprio lavoro.

d) Un'altra implicazione interessante, di cui mi riserverò di parlare eventualmente dopo aver letto "la città nella storia" di Mumford: così come diventa superflua l'azienda, il concetto stesso di città potrebbe essere destinato a cambiare natura o quanto meno portata storica.

Dieci milioni di persone non vivono insieme perché sono tanto affettuose, ma per recarsi al lavoro. Se non mi devo recare al lavoro me ne vado a vivere sulle Dolomiti, lontano dalle masse.

Il resto al vostro buon cuore, sempre che la logorrea vi abbia lasciato delle forze.

martedì 27 luglio 2010

L'instabilità afgana stabilizza l'Iran... O forse no?


Le rivelazioni di Wikileaks hanno riguardato anche l'Iran, in particolare operazioni della Repubblica Islamica in Iraq e in Afghanistan. Lo si sospettava già da tempo ma la cosa si arricchirebbe di dettagli: alleanza  in Afghanistan con Gulbuddin Hekmatyar, taglie sui soldati dell'esercito afgano (1.700$ per morto) e sui soldati americani (3.500$ per morto), aiuti economici di varia entità. Sul Daily Telegraph c'è un articolo.

In quella plancia di Risiko che è il Pamir afghano le alleanze cambiano spesso, e Hekmatyar ne è la dimostrazione vivente. Capo della resistenza afghana e alleato dei pakistani ai tempi dell'invasione sovietica, poi alleato di Massoud aiutato dalla Repubblica Islamica contro i talebani, e ora di nuovo insieme ai talebani come intermediario degli aiuti dell'Iran contro gli americani. Nel tempo libero, gran produttore di eroina.

La scelta iraniana sul piano strategico è comprensibile. Un Afghanistan e un Iraq instabili rendono molto improbabile un attacco all'Iran. Gli USA oggi non hanno la forza militare né politica per un'opzione di quel tipo (è possibile l'opzione "serba" ma ne parlerò in un post futuro).

Tuttavia la strategia di tensione in Afghanistan e in Iraq ha due controindicazioni.

La prima è che l'instabilità della regione si sta estendendo anche al territorio iraniano: in parte nel Kurdistan dove non c'è un aspetto militare ma ci sono stati molti scioperi di recente, ed è durissima la repressione del regime; poi in modo molto più evidente nel Sistan-Baluchistan, sul confine afghano-pakistano. Qui è attiva la formazione terroristica sunnita del Jundullah che ha appoggi nel Baluchistan pakistano (un po' come i talebani hanno appoggi Pashto oltre la linea Durand).

La formazione è responsabile di due gravi attacchi terroristici a distanza di un anno (vedi qui e qui) contro civili e pasdaran nella città di Zahedan, capoluogo del Baluchistan iraniano.

Ora, se è molto probabile che gli USA non siano in grado di invadere l'Iran, impantanati come sono tra crisi finanziaria, Iraq e Afghanistan, è anche certamente vero che la Repubblica Islamica non è in grado di affrontare simultaneamente un'instabilità stile afgano nel Baluchistan, una gravissima crisi di legittimità interna, e le pesanti sanzioni internazionali.

Sotto questo aspetto l'acuirsi dell'apartheid religioso durante l'amministrazione Ahmadinejad aggrava la situazione. In Iran ci sono 14 milioni di cittadini sunniti ma al Majles c'è un solo deputato sunnita. Non  è nemmeno eletto, perché nessun candidato sunnita passa le forche caudine del Consiglio dei Guardiani, ma è presente solo in rappresentanza della sua confessione. L'essere sunnita preclude la carriera politica ad alti livelli, e quindi nega anche importanti amicizie politiche, necessarie agli affari e agli investimenti in Iran come altrove.

Le bombe del Jundullah sono seguite a manifestazioni militar-religiose dei pasdaran sciiti nella grande moschea della città. Va detto che nelle città a maggioranza sunnita normalmente la moschea principale ("Jaméh" - مسجد جامع) è appunto sunnita. La presenza di sciiti, arrivati da fuori città per mettere in atto rituali simili a quelli degli orangisti a Belfast (ad esempio un mullah sciita dal "minbar" di una moschea sunnita che maledice i califfi sunniti Abubakr, Omar e Othman) ha certamente fatto la sua parte nell'esasperare gli animi.

Al resto ci pensano i servizi segreti pakistani finanziando Jundullah. La recente consegna del capo di Jundullah, Abdolmalek Rigi, avvenuto subito dopo il primo attentato di Zahedan, sembrò sulle prime un gesto di distensione. In realtà a posteriori si trattò di una situazione "lose-lose" per la repubblica islamica, poiché la condanna a morte era inevitabile ed avrà certamente fruttato nuove affiliazioni alla formazione. Ci sarebbe voluta una politica di ben altro profilo.

Infine una nota storica: in Iran è già successo che un'estesa rivolta sunnita, un governo debole e un'invasione straniera facessero cadere una dinastia. Insomma riassumendo: la politica di destabilizzazione oltre confine può risultare mortale.

Il secondo problema della strategia riguarda l'opinione pubblica iraniana, che è fortemente anti-talebana e anti-irachena anche nelle fasce politicamente più conservatrici.

Ritengo che la pronta smentita di Ahmadinejad riguardo alle pubblicazioni di Wikileaks vada vista principalmente in chiave di politica interna, e forse le recenti pubblicazioni in qualche modo spiegano anche l'oscuramento di Wikileaks filtrato nel 2009 dal provider nazionale iraniano.

Ai tempi sembrò molto strano: le rivelazioni del sito sulle attività dei servizi segreti USA volte a destabilizzare il paese erano un utile argomento di propaganda del regime in chiave anti-opposizione. Ora, a distanza di un anno, l'oscuramento assume perfettamente senso perché, ripeto, la collaborazione coi talebani per il governo iraniano è molto imbarazzante soprattutto sul piano della politica interna.

sabato 24 luglio 2010

Una pianta che va curata


"La democrazia è come una pianta che va curata. A una pianta serve un certo quantitativo di acqua al giorno, non si può versarle addosso venti litri di acqua e poi disinteressarsi pensando che venti litri basternno per tre mesi. Voi avete ottenuto la democrazia dopo che in questo paese è stato rovesciato il fascismo, e immagino che per un periodo ne avrete certamente avuto cura. Ma ora ho sentito dire che i vostri media sono controllati dai vostri politici. Se non rimediate a questa anomalia siate certi che tra 10 anni la vostra pianticella sarà in condizioni peggiori rispetto ad oggi".

Domanda:
"Cosa può fare l'occidente per l'Iran?"

Risposta:
"A questa domanda in parte rispondo quando parlo degli effetti della globalizzazione. Il fatto che il mondo sia irrimediabilmente diventato più piccolo implica che, se una nazione si incendia, il fuoco certamente si propagherà verso altre nazioni. Dovete considerare l'interesse per il rispetto dei diritti umani e della democrazia, in paesi lontani ed esotici, come se fosse un vostro preciso interesse nazionale nel lungo termine".

"Negli anni settanta gli USA iniziarono ad appoggiare il fondamentalismo islamico contro il comunismo. Al momento la cosa sembrava una buona idea, e tutto sommato le conseguenze erano indifferenti per chi vive qui. Ma, 35 anni dopo, più di duecento madrileni innocenti sono restati uccisi prendendo la metropolitana per andare al lavoro. Per non parlare delle torri gemelle o degli attentati di Londra. Perciò quella scelta non ha danneggiato solo i popoli delle aree interessate: essa ha avuto tragiche conseguenze sia verso la nazione che l'aveva adottata, sia verso nazioni che non erano nemmeno coinvolte direttamente nella decisione."

"Non è la bomba atomica a fare paura, ma i governi autoritari. Voi oggi non temete la potenza nucleare francese, perché sapete che il sistema del "check and balance" della democrazia francese in qualche modo vi mette al sicuro. Temete però - e giustamente - la bomba atomica pakistana."

"La radice di questo timore non va cercata nel test nucleare pakistano di una decina di anni fa: la minaccia pakistana è iniziata nel 1977, quando avete permesso al generale Zia-ul-Haqq di deporre e far uccidere il presidente Bhutto legittimamente eletto. E' inizita il giorno che avete deciso di continuare a mantenere relazioni economiche con le giunte golpiste e corrotte di quel paese. Così, per qualche vantaggio economico incassato allora, oggi temete il Pakistan e vedete come un incubo la possibilità che la sua bomba atomica cada nelle mani del radicalismo islamico. E fate bene ad aver paura. Perché fa paura."

"La democrazia non è una merce che possa essere esportata. Lottare e morire per la democrazia in Iran è compito degli iraniani. Ciò che può fare l'opinione pubblica europea è mettere sotto pressione i governi e le multinazionali per impedire che questi facciano affari a buon mercato con l'attuale dirigenza iraniana".

venerdì 16 luglio 2010

Oh no... Un altro post su internet e l'opposizione iraniana!


A distanza di più di un anno sarebbe interessante riguardare al ruolo di internet nell'organizzazione dell'opposizione iraniana. Ma dovremmo partire dall'inizio.

"Non si organizzano delle elezioni per perderle" disse una volta Eyadema, dittatore del Togo. Tuttavia delle elezioni con un'alta partecipazione popolare danno lustro alla vittoria, quindi bisogna convincere l'elettore che il confronto elettorale sarà libero. Nelle settimane prima delle elezioni del giugno 2009 i riformisti in Iran vissero un periodo di grande libertà politica. Non che potessero godere di una sorta di "par condicio" nella TV statale, totalmente sotto il controllo del governo. Ma l'opposizione si organizzava, si mostrava nelle strade liberamente e - il vero punto di svolta - per la prima volta ha potuto "contarsi" grazie al colore verde indossato in tutte le manifestazioni pubbliche.

La mancanza di accesso a TV e giornali ha spinto l'opposizione ad utilizzare prevalentemente la rete, e lo ha fatto in modo del tutto naturale. La leadership del movimento, a partire da Mousavi, appoggiò entusiasticamente la politica di "ciascun simpatizzante un medium, ciascun simpatizzante un leader" (slogan che non va preso alla lettera come vedremo). Come conseguenza l'organizzazione del movimento ha assunto spontaneamente una struttura a rete, così come richiedeva il suo medium comunicativo principale. La cosa non fu difficile: una buona percentuale di iraniani usavano internet già da un decennio. Insomma le competenze c'erano già, è stato sufficiente usarle nella politica anziché nel cazzeggio.

Dal canto suo il regime - avendo il controllo totale dell'informazione tradizionale - ha inizialmente dato l'impressione di aver preso sottogamba il medium concorrente e, quando si è accorto dell'errore, era troppo tardi.

In un paese come l'Iran in cui le famiglie sono diciamo così "allargate", l'azione di ciò che viene chiamato "opinion leadership locale" e "contagio sociale" (concetti da tempo studiati nel marketing) può essere notevole anche con la semplice comunicazione orale. Che poi internet amplifichi il contagio sociale o quantomeno lo espanda su scala molto più ampia è intuitivo. Ma, in condizioni ordinarie, la cosa non ha necessariamente effetti politici. Oltretutto da altri media ramificati, ancorché tradizionali, può scaturire a sua volta il contagio. Infine non è detto che il contagio proveniente da internet sia radicalmente opposto al contagio proveniente da TV e giornali. Anche se - essendo il contenuto del medium il medium stesso come direbbe McLuhan - una contrapposizione alla fine sarà inevitabile.

L'Iran del 2009 però presenta condizioni straordinarie.

Il fatto che la popolazione sia molto giovane è ormai noto anche ai bambini. Meno noto il fatto che nel 2009 circa metà dei cittadini iraniani avesse una qualche forma di accesso a internet, e che il vero boom si sia avuto proprio sotto l'amministrazione di Ahmadinejad (vedi ad esempio qui). In altre parole una popolazione giovane, desiderosa di esprimersi liberamente, trova il modo di farlo solo su internet esattamente nel momento in cui si diffondono i social network e web 2.0.

La diffidenza verso i media tradizionali in Iran è comprensibilmente molto radicata. La TV è uno strumento di propaganda del regime, lo sanno tutti e ne traggono le conseguenze. Questa convinzione è radicata soprattutto tra la popolazione giovane e istruita, almeno stando alla mia esperienza personale. In questa situazione il ruolo della "local opinion leadership" diventa cruciale: i parenti e gli amici si rivolgono al loro referente locale - quello che "capisce di politica" - per formarsi opinioni che ritengono essere in qualche modo più affidabili rispetto allo "spin" dei media. Perché si fidano, o semplicemente ritengono il conoscente più disinteressato. Lo stesso meccanismo che mi fa chiedere a un amico che "capisce di motori" quale auto dovrei comprare, finendo per fidarmi più di lui che della pubblicità.

La mia tesi è che l'Iran del 2008-2009 abbia vissuto uno spostamento della opinion leadership locale su posizioni di critica verso il regime. Non accadde casualmente: affidandosi principalmente alla televisione e alla stampa, l'opinion leader favorevole al regime non faceva altro che ripetere cose che l'interlocutore considerava ormai semplice propaganda. E' come se il mio amico che capisce di motori cercasse di convincermi a comprare un'auto usando le stesse esatte parole che ogni sera sento in una pubblicità: finisco per chiedere pareri a qualcun altro. Lo spostamento politico della opinion leadership locale avviene, cioè, in conseguenza ad una diffusa "fame di opinioni differenti" (la quale ha le sue ragioni economiche e sociali che eviterei di analizzare qui): opinioni che potevano formarsi e confrontarsi liberamente solo su internet.

E' già successo che un uomo politico si affidasse a internet come medium preferenziale. Almeno si dice così di Obama ad esempio. Tuttavia la critica maggiore a questo tipo di approccio è il pericolo del populismo se non del culto della personalità, in quanto il politico fa a meno di una struttura - il partito - ancora oggi ritenuta tutto sommato affidabile e tranquillizzante. Oppure si finisce in un innocuo sottofondo di lagna, nell'inazione politica totale.

Ma, a mio parere, più che considerarla superficialmente "la prima rivoluzione via twitter", è interessante analizzare il Movimento Verde iraniano come il primo esperimento di partito organizzato e coordinato prevalentemente su internet. In un partito c'è una linea politica che nasce dalla dialettica tra opinioni differenti, ma che alla fine prevale. Presa una certa decisione c'è una disciplina di partito alla quale la militanza si attiene. Tutto questo sembrerebbe poco adatto a internet perché la nostra esperienza di partiti ce li fa identificare con una struttura piramidale che parte dalla leadership e si allarga al simpatizzante passando per quadri e militanti.

Seguo e studio il movimento verde da più di un anno e racconto ciò che vedo di prima mano. Il caso iraniano sembrerebbe dimostrare che il "partito su internet" è possibile. E' possibile tenere "congressi" in cui si scambiano opinioni politiche e organizzative, si scartano quelle che non convergono con la linea generale, si individuano e persino si emarginano provocatori e deviazionisti, e il dibattito infine fornisce la base per i comunicati ufficiali della leadership.

I comunicati ufficiali sono diffusi principalmente via internet (e poi magari stampati e diffusi alla vecchia maniera) e - alla stregua di vere e proprie "mozioni" - stabiliscono che tipo di azioni politiche mettere in atto diventando spunti per successivi "congressi". E - almeno finora - prevale in generale una forte disciplina di partito.

Non sto dicendo che non sia sentita l'esigenza di avere una propria rete radio e TV. Ebrahim Nabavi e Mohsen Makhmalbaf stanno lavorando proprio a questo, e ne parlerò nel prossimo post. Dico però che web 2.0 può essere qualcosa di diverso da un posto dove ci si segnala a vicenda dei filmati buffi come oggi fanno in molti e come credeva Ahmadinejad due anni fa.

Internet può essere uno strumento che cambia, modernizza, amplia la dislocazione fisica di un partito politico senza snaturarlo e senza ucciderlo. Anzi, forse potenziandolo.

giovedì 8 luglio 2010

Ancora sul bazar


Qualche dettaglio in più. A quanto leggo, il governo aveva intenzione di aumentare sensibilmente le imposte dirette a carico dei commercianti. Si trattava quasi di un raddoppio rispetto all'anno precedente: il 70% in più.

Martedì sono iniziate le prime proteste. Ne è seguito un incontro in serata tra il ministero delle finanze, quello delle attività produttive, e il segretario dell'unione dei commercianti. Sembrava si fosse raggiunto un accordo intorno ad un aumento della pressione fiscale pari "solo" al 30%, secondo quanto riporta l'agenzia nazionale ISNA. Si è anche deciso di avere un incontro pubblico in presenza dei "bazarì" per illustrare l'accordo.

Certo il comportamento dell'amministrazione non invoglia il cittadino a pagare le tasse. Da quasi due anni il governo si rifiuta di dare spiegazione ai numerosi rilievi della corte dei conti sulle irregolarità del bilancio pubblico. Il parlamento [*] non riesce ad esercitare nessun tipo di controllo sulla spesa del gettito semplicemente perché il governo non risponde. Oltretutto voci ingenti di spesa sono secretati dal governo con la scusa della sicurezza.

L'incontro pubblico non è andato come il governo sperava. I commercianti hanno fortemente protestato contro l'accordo, sostenendo che a causa della crisi economica [**] oggi non riuscirebbero neppure a pagare le stesse tasse dell'anno scorso, figuriamoci un aumento del 30%.

I toni erano talmente accesi che il ministro delle attività produttive ha dovuto abbandonare precipitosamente la sala. A questo punto il delegato dell'unione dei commercianti - che aveva firmato l'accordo del 30% - si è limitato a prendere atto che la base rifiutava l'accordo e ha ritirato la propria firma.

Il resto lo sapete.

[*] Giova ricordare che nelle democrazie dell'era moderna la prima prerogativa di qualunque parlamento è il controllo della spesa pubblica. La funzione di approvazione del bilancio, nei parlamenti, ha storicamente preceduto la stessa funzione legislativa.

[**] In Iran la crisi è durissima. Basta pensare che le spesso le stesse aziende a capitale pubblico pagano gli stipendi con ritardi che oscillano tra i sei mesi e l'anno. I consumi calano, ma l'inflazione cresce a causa del peggioramento del cambio, il che fa salire il prezzo di qualunque bene di importazione.

Bazar blues


Quando ho letto la notizia delle agitazioni del bazar di Teheran, in reazione all'intenzione del governo di aumentare le imposte dirette di un 70%, mi sono detto "belin... due sole settimane di sole di sanzioni e siamo già a questo punto...".

In Iran la perdita dell'appoggio politico del bazar ha spesso rappresentato uno degli ultimi chiodi sulla bara del regime al potere. Ho già spiegato in un post dell'anno scorso come, allo stato attuale, nel paese non sia in atto un conflitto di classe, ma un duro scontro che vede contrapposte due diverse borghesie: una  moderna, l'altra conservatrice.

Ho anche spiegato che in questo conflitto i bazarì rappresentano la borghesia conservatrice vicina al regime ma che, presi singolarmente, ciascuno di loro ambisce a mandare un figlio a studiare in Europa e non ha grosse difficoltà a dare propria figlia in marito a un giovane medico elegante colto e ben vestito. Siamo in presenza cioè di una progressiva mutazione direi "antropologica" della società iraniana: la parte moderna sta aumentando numericamente, mentre la parte conservatrice si va riducendo. Il processo peraltro conferma perfettamente le tesi di Emmanuel Todd nella sua opera intitolata "incontro di civiltà".

Torniamo al bazar. Le agitazioni di ieri e oggi hanno avuto come epicentro l'ala dei commercianti di tessuti, diffondendosi poi a macchia d'olio. Le forze antisommossa e basij hanno intimato ai commercianti di riaprire i negozi ma per risposta hanno ricevuto dei fischi e da qualche coro "morte al dittatore", così sono intervenuti direttamente col piede di porco a forzare le saracinesche... Nulla di nuovo, lo faceva anche lo shah nel 1978.

E' rimasto ucciso un noto bazarì e sono stati arrestati molti altri, tra i quali il presidente della confederazione dei commercianti tessili Motamedian che arringava la folla col megafono. Per domani è prevista una nuova agitazione di protesta contro l'attacco delle forze di polizia che, per inciso, cade il giorno prima dell'undicesimo anniversario dell'attacco dei miliziani del regime all'università di Teheran. Intendo dire che non è da escludersi un appoggio degli studenti alle agitazioni dei bazarì o quanto meno una simultaneità che metterebbe in imbarazzo operativo le forze dell'ordine. Si ha notizia di agitazioni anche nel bazar di Tabriz, capoluogo dell'Azerbaijan.

Attaccando il bazar il governo ha consumato un atto "contro natura". E' come se in Italia la polizia caricasse una manifestazione indetta dalla confcommercio e ci scappasse il morto. Lo fa solo un governo disperato che ha perso completamente contatto con la realtà. Perché quella dei bazarì è l'ultima classe sociale a muoversi contro il governo e lo fa solo in due circostanze, spesso simultamnee:

1) Quando l'operato del governo danneggia economicamente il bazar:

Ad esempio una crisi economica malissimo governata, con una politica economica che ha irrimediabilmente danneggiato l'industria (in particolare proprio nel settore tessile) aprendo a merci cinesi e comprimendo il potere d'acquisto delle famiglie.

Il tutto oggi aggravato da sanzioni affibbiate al paese per una causa - quella nucleare - i cui benefici sono lontani e incomprensibili ai più, mentre la sparizione della benzina sarà un male estremamente concreto, quotidiano e doloroso. E lasciamo stare il pericolo di una guerra.

2) Quando il governo è percepito come fattore di instabilità:

Questa condizione è ovviamente legata alla precedente: agli occhi del bazarì una cronica instabilità politica ed economica è da addebitarsi al malgoverno quasi sempre. Ma se poi alle proteste si risponde con la stessa violenza che si usa contro gli studenti, allora si consuma la rottura.

Questo spiega in che modo in Iran i regimi cadono e le rivoluzioni  vincono: i regimi cadono quando l'opposizione riesce a presentare se stesso come forza della legalità e della stabilità, mentre il governo non fa altro che manganellare, incarcerare, stuprare, uccidere in carcere.

E' la ragione per cui in Iran la rivoluzione è spesso estremamente "disciplinata". Ricordo due esempi splendidi della rivoluzione del 1979 citati da Ryszard Kapuscinski nel libro Shah-in-Shah: un corteo contro lo Shah seguito da dei ragazzini che scopavano la strada per non dare fastidio nemmeno agli spazzini; un altro corteo rumoroso che si zittiva immediatamente e spontaneamente appena passava davanti ad un ospedale.

Dall'altra parte il governo mandava i soldati a sparare sulla folla. Certo è finita com'è finita dopo, e in quel dopo è in parte dovuto alla violenza del regime prima. Ma, durante, pochi avevano dei dubbi su da che parte stesse la stabilità e da che parte l'instabilità.

***
A parziale rettifica: la persona uccisa in realtà è stata ferita gravemente dalla coltellata di un miliziano in borghese, la morte non è confermata. Si chiama, o si chiamava, Azizollah Kashani, commerciante di stoffa sessantottenne.

sabato 3 luglio 2010

Scetticismo


"Quando il governo controlla tutte le fonti di informazione, in linea di principio non bisogna credere a nessuna notizia" (Dr. Ali Shariati - nella foto).

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In Iran i media hanno dato molta enfasi alla notizia della condanna a morte di alcuni secondini responsabili di massacri e degli stupri consumatisi nel centro di detenzione di Kahrizak. Il fatto è avvenuto l'anno scorso in queste giornate e se n'è parlato anche qui.

Ne è seguita un'inchiesta parlamentare e la commissione ha ordinato alla corte suprema di processare i responsabili. La commissione parlamentare aveva infatti stabilito il diretto coinvolgimento dell'ex procuratore di Teheran (Mortazavi, nella foto a sinistra) e altri responsabili di alto livello. Mortazavi era già noto alle cronache occidentali per aver personalmente violentato e ucciso in carcere Zahra Kazemi - cittadina irano-canadese - durante un interrogatorio nel 2003.

Ora a sentire le agenzie iraniane ci sarebbe stato un processo e delle condanne per i fatti di Kahrizak. Condanne a morte addirittura. E i giornali più vicini al governo ne danno uno spin del tipo "che grande e giusto paese che siamo". Ma sono segreti, nell'ordine: i nomi dei giudici, i nomi dei condannati, i nomi degli avvocati, il luogo in cui si è svolto il processo, gli atti processuali, e la data stabilita per l'esecuzione della condanna.

In altre parole magari domani impiccano due tagliagole di quelli senza distintivo e dicono che erano i secondini condannati. E' ovvio che una notizia del genere ha solo l'obiettivo di cercare di rinserrare le file "interne" del regime, messe a dura prova. Nessuno ne sarà convinto. Persino chi se ne dirà convinto saprà che si tratta di un falso, ma farà finta di crederci per disciplina di partito.

Insomma in Iran sono abituati a non dare peso a notizie del genere. Ma, se domani l'ANSA la batte come notizia ufficiale, in campana. Il che ci riporta alla citazione del Dr. Shariati.

giovedì 1 luglio 2010

La sberla di Dio non fa rumore - 2


Traduco un'analisi della pagina FB "rivoluzione verde" che completa il ragionamento iniziato l'altro ieri: ciò che accomuna le diverse anime dell'opposizione iraniana, e che le contrappone frontalmente al regime, è l'accordo sui principi liberali. I principi liberali saranno poco sexy, ma in Iran rappresentano un inedito di livello epocale.

Gli eventi ai quali si riferisce l'analisi sono tutti accaduti nel mese di giugno: l'aggressione verbale al nipote dell'Ayatollah Khomeini da parte di una squadra di contestatori filo-governativi, che non ha consentito al giovane religioso di finire il suo discorso. L'aggressione si è consumata nel cortile della casa della famiglia Khomeini a Teheran, aperta al pubblico in occasione della commemorazione della morte del leader.

Nei giorni successivi si alzò un unanime coro di proteste da parte dei più influenti religiosi di Qom (compresa una lettera di solidarietà da parte dell'Ayatollah Sistani dall'Iraq), al quale seguì la rappresaglia degli squadristi di Ahmadinejad contro le case degli ayatollah Sanei e Zanjani a Qom.

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Gli attacchi organizzati degli elementi filo governativi contro le case e gli uffici dei "Marjà" nella città di Qom possono essere definiti un attacco preventivo. L'atmosfera di Qom e delle scuole teologiche si era fatta molto pesante dopo l'attacco subito da Seyyed Hossein Khomeini, fatto che gli aveva impedito di portare a termine il discorso commemorativo, e c'era il forte rischio di una reazione a catena come quella avuta in occasione dell'articolo di Rashidi Motlagh [1].

Questi attacchi hanno dimostrato che il regime è disposto a qualunque violazione dell'etica pur di non perdere il controllo della propria retroguardia ideologica (cioè la città di Qom e le scuole di teologia). Ma quali sono le conseguenze per il movimento?

Una situazione "perdita-perdita"

In superficie il regime ha dimostrato di poter tenere sotto controllo i moti di protesta nella capitale dello sciismo. Dopo l'isolenza di cui è stato oggetto il nipote dell'Emam Khomeini, in presenza di Khamenei, era plausibile aspettarsi forti proteste a Qom. Il regime è intervenuto seguendo il consiglio di Machiavelli che suggerisce di rimandare solo le battaglie che vedono favorito l'avversario.

Ma affrontare la situazione in questo modo, intimidendo l'alto clero sciita, finisce per distruggere proprio le colonne ideologiche alle quali il regime cerca di far reggere la propria legittimazione. Il cioè in questo modo perde ulteriormente legittimità religiosa e diventa maggiormente bisognoso di baionette.

Non sono i nemici dell'islam e dei musulmani a violare le abitazioni del clero, ma le stesse forze del governo. Il fatto è importante perché, perdendo la sua sorgente ideologica, il regime diventa più vulnerabile sul piano dialettico, mentre maggiore diventa la forza di attrazione del movimento di opposizione verso gli strati sociali più religiosi. E questo per il regime è autolesionistico.

Denunciare soprusi al clero, oppure proteggerlo?

Uno dei punti deboli più critici del regime è la confusione tra il secolarismo e l'anti-religiosità. E' chiaro che un individuo può essere secolarista pur rimanendo fortemente religioso nella sua vita intima, ma la cricca al potere identifica il secolarismo con l'odio per la religione, per il clero e per i singoli fedeli. Per questo il regime è convinto che i secolaristi provano piacere ogni volta che dei religiosi vengono umiliati, derisi, e ostracizzati.

Dopo i recenti avvenimenti alcuni intellettuali e attivisti si sono prodigati a scrivere petizioni e lettere di protesta all'indirizzo dei "marjà" sciiti, chiedendo loro di prendere posizione contro le decisioni oppressive del potere. La verità è che costoro si trovano in una posizione debole e non sono nemmeno più in grado di proteggere le loro stesse abitazioni. In altre parole il clero e le scuole teologiche, come tutte le altre istituzioni sociali e civili, si sentono sull'orlo del baratro e hanno bisogno più che mai di solidarietà e protezione.

Inoltre, nonostante le recenti umiliazioni e minacce da parte del regime, il clero teme ancora fortemente il fallimento dell'esperiernza del "velayat-e faqih". La propaganda del regime martella i religiosi con visioni di distruzione e genocidio nel caso di una vittoria del movimento verde, minacciando il ritorno dei tempi di Reza Khan quando le donne col velo erano costrette a chiudersi in casa.

In questa situazione si rende necessario che personalità laiche vicine all'opposizione condannino gli attacchi recenti, e che dichiarino la propria solidarietà. La difesa dei diritti fondamentali dei sacerdoti - ancorché non un loro diritto particolare a governare - può mitigare la reciproca diffidenza e rafforzare l'opposizione al regime.

Un unico movimento, dalle case di Qom alle torri di Elahieh

Tenendo conto di quanto detto, gli eventi del 4 giugno e successivi rappresentano un'occasione eccezionale per il movimento. Un'occasione che il governo, messo alle strette dalle sue debolezze, è stato costretto a regalarci violando le abitazioni di due importanti religiosi. Non si deve passare accanto a quanto accaduto restando in silenzio.

Negli anni passati abbiamo assistito innumerevoli volte alla violazione delle abitazioni di privati cittadini da parte delle forze pubbliche le quali, con la scusa della lotta contro la decadenza morale, buttavano all'aria feste private e matrimoni. Questi attacchi erano particolarmente diretti contro i quartieri benestanti, quelli più distanti dall'ideologia dominante.

Inoltre perquisizioni e i posti di blocco stradali si concentravano quasi sempre contro lo stile di vita della classe media. Non succedeva mai che venisse perquisita l'auto di un giovane con abito da sacerdote, o che gli venisse chiesto davanti a moglie e figli di far sentire l'alito per verificare se aveva bevuto.

Questa discriminazione è durata anni. Il clero, che un tempo aveva potere e godeva del rispetto del regime, non ha mai ritenuto necessario dire che - se è lecito perquisire le auto dei giovani - allora dovete perquisire anche la mia. Al contrario si disinteressava della cosa e la accettava come necessità nella lotto contro la "moralità corrotta" dei giovani.

Tra le crepe di questo reciproco disinteresse ha messo le radici la pianta velenosa di un regime repressivo e ideologico. Una pianta che oggi è così cresciuta da non ritenere più necessario nascondersi dietro alla religione, e che ormai si comporta allo stesso modo quando viola l'abitazione di un religioso o una dove si sta svolgendo un party.

A prescindere dalla reazione dell'opposizione, il fatto di scontentare ed essere diffidente verso tutti gli strati sociali è segno della debolezza del regime: esso teme allo stesso modo il foulard di una ragazza poco coperta e il turbante di un mullah. Il regime è solo, delegittimato e isolato, poiché sa che in Iran nessuna forza può sopravvivere resistendo allo stesso tempo contro le forze secolariste e contro i religiosi.

(...)

Infine

Il silenzio del passato davanti alle perquisizioni che violavano la vita privata dei cittadini ha portato con sé, oggi, un nuovo tipo di repressione: la pattuglia contro il clero di Qom. L'obiettivo di questi pattugliamenti è simile a quello delle pattuglie di "buon costume" a Teheran: colpire alcuni per intimorire molti. Si scelgono alcuni religiosi e li si sottopone ai trattamenti più umilianti per zittire tutti gli altri.

E' improbabile che un nostro silenzio di fronte alle violazioni dei diritti di privati cittadini, oggi, porti con sé qualcosa di positivo. La maggior parte degli iraniani sono ormai convinti che non si devono più mettere in relazione le convinzioni ideologiche di un cittadino con l'inviolabilità o meno dei suoi diritti civili.

Certo ci può essere ancora qualcuno che tenda a giustificare il suo silenzio come forma di secolarismo. Si può pensare che in fondo questa gente se lo merita perché negli anni '80 ha fatto questo e quell'altro e che le sberle di Dio non fanno rumore. Ma il silenzio di fronte alla violazione dei diritti fondamentali di uno strato sociale porta con sé un'amara conseguenza: il consolidamento delle forse della Sepah e dei Basij nel ruolo di "mano di Dio" o della natura.

[1] Si tratta di un articolo apparso nel 1978 sul giornale "Ettelaat" in cui l'Ayatollah Khomeini veniva insultato. La reazione popolare a questo articolo è considerata essere l'inizio della rivoluzione islamica. N.d.t.

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