martedì 17 novembre 2009

Kiarostami VS Ghobadi - redux


Roozbeh Khosrovani è una firma abituale della webzine "rahesabz", organo internet del movimento verde. Ieri è apparso un suo articolo in risposta alla lettera aperta di Ghobadi a Kiarostami, apparsa a sua volta sulla stessa webzine e da me tradotta qui.

L'articolo di Khosrovani richiama alla linea strategica "unità prima di tutto" e cerca di gettare acqua sul fuoco. Ciò si rende necessario anche per spegnere sul nascere possibili tentativi di provocazione del regime miranti a creare rotture tra le componenti del movimento, in primo luogo tra la sua componente estera e quella interna. Tentativi sui quali recentemente hanno messo in guardia sia Mohsen Sazegara sia Mohsen Makhmalbaf, oltre che gli stessi Mousavi e Karoubi.

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A dire il vero quando ho letto la lettera aperta di Ghobadi a Kiarostami, nonostante la cosa mi abbia intristito, ho pensato che non erano affari miei. Kiarostami è, adulto, intelligente e dotato di lingua. Se lo avesse ritenuto opportuno avrebbe risposto, e di certo se avesse avuto bisogno di avvocati io non avrei avuto comunque alcun ruolo nella faccenda. Ma, dopo aver ricevuto diversi e-mail da amici, in qualche modo soddisfatti del contenuto della lettera di Ghobadi, ho pensato che dopo tutto non sarebbe male scrivere qualcosa in merito.

Personalmente detesto queste polemiche de-focalizzanti che ci allontanano dalle priorità del movimento, ma ho notato che molti amici non sapevano nulla della questione e giudicavano un grande personaggio come Kiarostami sulla base di informazioni parziali se non unilaterali.

La lettera di Ghobadi a Kiarostami era in risposta ad un'intervista in cui quest'ultimo dichiarava il suo desiderio di continuare a vivere in Iran nonostante le difficoltà. Ho letto quelle poche righe con molta simpatia, perché anch'io continuo a vivere in Iran condividendone contenuto e le motivazioni, e sono convinto che non siano poche le persone che la pensano allo stesso modo.

Prima di tutto è bene che gli amici leggano l'intervista a Kiarostami, qui. In quell'intervista Kiarostami parlava anche direttamente di Ghobadi, dicendo "se Ghobadi è convinto che fuori dal paese riuscirà a girare film migliori gli faccio i miei auguri, ma questa non è la mia esperienza personale". Credo che Kiarostami volesse semplicemente dire che, contrariamente a Ghobadi, non ritiene che girare film all'estero migliori la qualità dei suoi film, ma che anzi crede che la cosa produca l'effetto contrario.

Noi che abbiamo scelto di vivere in Iran, nonostante avessimo la possibilità di vivere all'estero, siamo persone comuni che hanno fatto questa scelta accettando le sue difficoltà e le sue dolcezze, tutto sommato preferendole all'esilio. Penso che, tra tutte le etichette da incollarci addosso, quella di "moderati" è un tantino ingiusta. Lo testimoniano i volti che vedo intorno a me in tutte le manifestazioni e in tutti gli scontri: persone che magari già anni addietro furono arrestate ed ora sono tornate alla loro vita normale, ma che essendosi presentata l'opportunità lottano spalla a spalla con migliaia di compatrioti e alzano la loro voce di protesta.

Comunque stiano le cose, noi che viviamo in Iran siamo ad una distanza inferiore dalla lama del boia. Sono certo che la quasi totalità degli amici che vivono all'estero sono emigrate negli anni '80 temendo ragionevolmente per la loro vita, ma la mia domanda è questa: che percentuale tra di loro continua a vivere all'estero oggi per la stessa ragione? Tra le mie conoscenze, tra le decine di persone che sono state costrette ad abbandonare il paese in quegli anni, coloro che rischierebbero l'arresto in caso di ritorno si contano sulle dita di una mano.

A mio parere la scelta del paese in cui vivere è personale. Certo i concittadini emigrati all'estero in quegli anni ormai hanno figli grandi, insomma si sono fatti una vita all'estero e non hanno nessuna voglia di affrontare un nuovo esilio, questa volta al contrario. Ma, cari amici che vivete all'estero per ragioni valide quanto volete, credetemi, etichettare come "moderati" noi e persone come Kiarostami, che viviamo in questo rudere, è profondamente ingiusto.

Un altro punto che bisogna tenere sempre a mente è che la forza di volontà cambia da persona a persona. Anche il modo e le occasioni in cui la volontà di una persona si manifesta cambiano, rendendo ovviamente impossibile qualunque forma di misurazione oggettiva. Io stesso, che partecipo a quasi tutte le manifestazioni, spesso sono sorpreso dal coraggio dei miei concittadini. In particolar modo quello delle donne. Cosa ci fa uno come me là in mezzo?

Ma non è importante. Ciò che è importante è che io, con tutta la mia "moderazione", non me ne sto in casa ed esco per la strada. Un altro magari non ha il coraggio di rischiare la strada e si limita a filmare e informare. Un terzo, come dice Mir Hossein Moussavi, non fa nemmeno quello e si limita a pregare o a sussurrare parole di pace e amicizia nelle orecchie di un basij... Ciò che caratterizza questo movimento è che chiunque fa del suo meglio per quanto consentitogli dalla sua indole, e tutti insieme affrontano - disarmati e indifesi - pallottole, pugnali, rischi personali. Sarebbe meglio se frenassimo la tendenza a etichettare, e valorizzassimo gli sforzi di tutti.

Io vivo in questo paese con tutte le sue difficoltà. Salgo su questi taxi scassati, lotto con i prezzi che volano come missili, sparlo dietro al regime in fila dal panettiere, litigo e mi faccio consolare dalla gente. Preferisco vivere qui che in qualunque altra parte del mondo, ma questa mia scelta non è un sacrificio, è appunto una scelta personale dovuta al fatto che non mi sono sentito "a casa" da nessun'altra parte.

Amici residenti all'estero, noi rispettiamo la vostra decisione di vivere fuori dall'Iran. Voi, per favore, cercate di comprendere e rispettare la nostra situazione, le nostre limitazioni, la nostra "moderazione". E non siate felici del giudizio severo e ingiusto del carissimo Bahman Ghobadi, che ha scelto di vivere a New York, e delle sue accuse a Kiarostami che invece ha scelto di vivere "in fondo a un vicolo cieco" a Teheran.

In ultimo, non è male se date una letta a questo comunicato [*] che denuncia il tentativo di cancellare il cinema iraniano indipendente, che porta, tra le altre, la firma del "moderato" Kiarostami.

[*] Ndt - Si tratta di un comunicato di una decina di righe, apparso anche su agenzie di stampa ufficiali del paese. Il comunicato denuncia il tentativo di normalizzare il cinema iraniano mediante l'uso simultaneo di strumenti legali (negazione di autorizzazioni a girare) e di mercato (esclusione dal ciclo distributivo). Tra la cinquantina di firme di registi si trova anche quella di Abbas Kiarostami.

venerdì 13 novembre 2009

Non violenza come scelta strategica


Non meno di 3 anni fa qualcuno un po' in vena di originalità mi disse che aveva notato un atteggiamento di basso profilo dei comici italiani nei confronti dell'islamismo militante. A suo dire i comici temono la ritorsione, e preferiscono evitare.

La mia opinione era che la critica all'islamismo in Europa funziona solo esteriormente, e solo per alcune posizioni politiche, ma che tutto sommato non è un problema davvero sentito a livello popolare. Se lo fosse stato, se davvero fosse stato un problema sentito "nelle ossa" del popolo, sostenevo allora (e sostengo ancora oggi), il pericolo di ritorsioni non avrebbe avuto alcun effetto.

Portai l'esempio di autori e scrittori iraniani che da anni sono quotidianamente critici verso l'islamismo militante a costo di essere ostracizzati, carcerati, torturati, esiliati. Uno di questi autori è Ebrahim Nabavi.

Ebrahim Nabavi è un grande autore satirico contemporaneo. In assoluto l'autore iraniano che leggo di più. Uno stile leggero e martellante allo stesso tempo, che colpisce duro e non fa prigionieri, ma senza perdere lucidità.

Per certi versi ricorda Beppe Grillo, ma meno incazzoso, più lucido appunto. Tutto sommato con più acume politico rispetto al comico genovese, e ne beneficia lo stile. In un paese come l'Iran, quando devi scrivere nonostante la censura e il carcere, l'acume ti si sviluppa da solo. Così ti doti di uno stile che spesso "il boia non capisce", come avrebbe detto Karl Kraus. Lo stile migliore.

Oggi traduco un suo scritto serio che prova quanto ho appena detto. Lo scritto è apparso sulla webzine "rahesabz", ed è interessante anche per un'altra discussione in cui sono impegnato via mail. A volte è difficile cogliere le differenze tra l'oggi e lo ieri, per motivi di età o perché si è distratti dalla quotidianità. Ma queste differenze vanno colte, altrimenti si rischia di trarre conclusioni troppo affrettate e si rischia di non capire cosa sta accadendo.

Il movimento rivoluzionario che rovesciò lo Shah trent'anni fa, non produsse mai uno scritto simile. Mai. E tra poco sarà chiaro perché. Buona lettura.

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La violenza non ci renderà liberi:

Nella prima parte di questo articolo spiegai come la lotta non violenta sia oggi per noi l'unica opzione percorribile, e che la selvaggia repressione messa in atto il 4 novembre, nonostante sia un'amara realtà, non ci deve trascinare dove vuole il regime.

Il regime vuole che la lotta diventi violenta per far sì che sia costoso parteciparvi, così potranno affrontare manifestazioni di diecimila persone anziché masse di milioni. Diecimila persone possono essere attestate o disperse, ma nessuna polizia al mondo riuscirà mai a disperdere due milioni di individui. Di fronte a manifestazioni di massa, alla polizia non rimane altro da fare che stare a guardare dai vicoli laterali.

Quando internamente al movimento ci si lamenta del fatto che "a mani nude" riusciamo solo ad avere più perdite, dobbiamo chiederci: un cambiamento di strategia ed una lotta più radicale ci aiutano a raggiungere meglio i nostri obiettivi o il contrario?

In generale la teoria della lotta contro un regime ammette la "violenza primaria" in due situazioni. In primis quando si combatte per la vittoria, cioè per dare il colpo di grazia al regime. Oppure quando si combatte per informare e per rompere l'atmosfera di silenzio che grava sulla società (la teoria avanguardista: il "piccolo ingranaggio" della guerriglia che mette in moto il "grande ingranaggio" della società).

Nelle condizioni attuali il nostro movimento non ha alcuna esigenza di rompere il silenzio: il popolo è già informato e ha già preso posizione, e certamente sulla società non grava una cappa di silenzio e di disinteresse politico. Pertanto avremmo qualche ragione di ricorrere alla lotta armata solo se intravvedessimo più del 50% di possibilità di dare al regime il colpo di grazia.

Ora, visto che sappiamo tutti che in caso di occupazione di una caserma di pasdaran il regime contrattaccherà con tank, elicotteri ed RPG-7 e ci farà a pezzi, e dopo impiccherà gli arrestati, è ovvio che iniziare la lotta armata è stupido. La cosa sarebbe proponibile solo in caso di insurrezione generale a regime già sgretolato, come accadde l'11 febbraio 1979. Ma anche allora bisognerebbe continuare, con la politica, a provocare defezioni tra gli ultimi fedeli al regime per avere meno perdite.

[...]

Una comunicazione con minori costi umani significa anche un calo della violenza. Una parte della violenza contro il movimento è provocata non tanto dalla precisa volontà del regime di provocare terrore, quanto dal fatto che il movimento non gode di una comunicazione semplice ed agevole.

L'aiuto dei numerosi verdi fuori dal paese è di primaria importanza. Essi devono togliere dai compagni residenti nel paese il fardello organizzativo ogni volta che ciò è possibile. Continuare a comunicare usando i social network o l'email per distribuire comunicati, direttive, concordare slogan e iniziative, [...] farà calare notevolmente il rischio organizzativo, dato che i compagni all'estero sono al sicuro. In un certo senso si tratterebbe anche della vera messa in pratica del nostro principio di "leadership collettiva".

Sul piano mediatico ci troviamo impegnati in un confronto asimmetrico. Il nostro movimento esiste da soli sei mesi e si trova a doversi confrontare con una propaganda di regime che ha un'esperienza trentennale [...]. Voglio dire che una parte dei nostri problemi deriva dall'inesperienza. Va anche detto che il movimento sta crescendo, accumulando esperienza, e si va rafforzando rapidamente. Tuttavia per quel che concerne la leadership esecutiva ci sono ancora ampi margini di crescita.

Una cosa notevole è che il movimento è incredibilmente "saggio", in un modo che nella storia nazionale non ha precedenti. Ma si possono ancora fare molte cose per diminuire i costi umani. Ad esempio l'uso dei social network, per quanto utile sotto l'aspetto informativo e propagandistico, sotto l'aspetto organizzativo fa sì che il regime conosca perfettamente le nostre iniziative in anticipo.

Il regime può quindi mettere dei posti di blocco e far sì che i piccoli cortei non possano riunirsi nel tipico fiume umano. Di conseguenza crescono la quantità di scontri e la violenza del confronto. Con un'organizzazione dettagliata si evitano gli scontri [...].

Il punto di forza del movimento è la sua diffusione tra tutti i diversi strati sociali, anagrafici ed etnici del paese. Perché non è un movimento di guerriglia che richieda l'abbandono della vita ordinaria per parteciparvi. E' formato da persone che vogliono riprendersi i diritti che gli sono stati tolti, e non è giusto che perdano anche quello di vivere normalmente. Il movimento perciò deve utilizzare forme di lotta che possano essere messe in atto a prescindere dall'età o dalla propensione al sacrificio.

Un esempio è il canto collettivo di "Allah Akbar" dai terrazzi di notte: mostra la forza del movimento con pochissimo rischio personale. Un altro esempio è la pianificazione delle manifestazioni durante le ricorrenze ufficiali del regime. Ad esempio, nella prima decade di Muharram [17-27 dicembre ndt], la vita dei cittadini è già organizzata in modo tale da essere compatibile con cortei e manifestazioni quotiodiane. Noi dobbiamo far diventare il movimento una parte della vita ordinaria delle persone, e per questa via diminuirà anche il tasso di violenza.

[...]

Ogni picco di violenza contro il movimento ha certamente causato isolamento e divisioni in seno ai sostenitori del regime. Va però aggiunto che la violenza ha comunque anche l'effetto contrario: fa diminuire la presenza militante delle persone comuni favorevoli al movimento. Così pure qualunque denuncia delle violenze delle forze dell'ordine porta con sé entrambi gli effetti.

In questo contesto va prestata molta attenzione alla fondatezza delle denunce, proprio per evitare il "lato b" della questione. Ad esempio, se gli stupri ai danni donne e uomini arrestati non sono sistematici ma hanno rappresentato un'eccezione per quanto grave, noi non dobbiamo far intendere che lo sono, perché otterremmo solo di terrorizzare le compagne e le loro famiglie. Se sappiamo che le torture ai danni degli arrestati sono diminuiti grazie alle pressioni internazionali, non dobbiamo dire il contrario.

Provocare paure infondate è cedere all'avventurismo. Su questo tema non si deve scendere a compromessi, e sono necessari richiami fermi e immediati a chiunque contribuisca alla diffusione di denunce senza fonte verificabile.

[...]

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mercoledì 11 novembre 2009

Ghobadi contro Kiarostami

Leggo e traduco una dura lettera aperta del regista Bahman Ghobadi in replica ad un'intervista di Abbas Kiarostami. Nell'intervista il vecchio Kiarostami era stato molto polemico con l'impegno sociale e politico dei registi della cosiddetta "new wave" del cinema iraniano.

Il confronto polemico tra "cinema puro" e "cinema ideologico" è noioso quanto un vecchio che ti racconta di quando scopava. Ma la lettera è interessante per far capire come, ormai, in Iran, «non esiste più un 'là fuori'».

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Carissimo signor Kiarostami

In tutti questi anni, durante i quali come regista per me sei stato un modello ispiratore, non ho mai osato scriverti nemmeno una lettera privata. Se mi venivano in mente delle cose da dire, cacciavo il pensiero preferendo ascoltare le tue saggi parole in silenzio. Ma la tua recente intervista con un giornale straniero mi ha talmente sorpreso che ho preso in mano la penna per scriverti pubblicamente.

Tutto è iniziato quella maledetta sera al festival Abu Dhabi, quando mi hai preso per il braccio e, in privato, mi hai detto che il mio film "nessuno sa nulla dei gatti persiani" non ti era piaciuto. Non ci sono rimasto male, sono rimasto estremamente sorpreso: cinque mesi prima avevi visto lo stesso film a casa mia a Teheran e mi avevi detto che ti piaceva.

Non capivo come mai avevi cambiato idea in un così breve tempo ma, come sempre, la tua opinione era per me importante e ti ho ringraziato. Però poi hai proseguito. Hai criticato ferocemente il mio concetto di cinema e il mio approccio alle questioni sociali, usando contro di me e Panahi un linguaggio sgradevole che non mi sarei mai aspettato di sentire da una persona del tuo calibro. Hai paragonato il nostro cinema alle opere più sciocche che uno possa immaginare. Non solo, ma ci hai accusati di menzogna, quando ci eravamo limitati a riportare - nelle nostre pellicole - le parole che avevamo sentito nei sotterranei delle nostre case e negli angusti vicoli delle nostre città.

Hai detto che quando per un regista si battono le mani e lo si copre di ovazioni, ormai è un regista morto. Forse allora anche Kiarostami era già un regista morto a Cannes dopo Il Sapore della Ciliegia e Sotto gli Ulivi? Dopo la proiezione del mio film eri l’unico in sala che non applaudiva e sembrava persino arrabbiato.

Mio caro e prezioso maestro, i tuoi insegnamenti sono stati importanti per me e per tutti i cinefili del paese. Ma questo non ti dà il diritto di tracciare un solco dal quale non si può deviare, e di considerare senza valore qualunque film che non sia, come i tuoi, intimistico e completamente al di fuori delle questioni sociali.

Io prendo le mie motivazioni dal respiro caldo del pubblico, dalla sua approvazione, che per me è un premio notevolmente più prezioso del premio in denaro che lo stesso pubblico mi ha elargito. Il mio stile è quello di cercare di provocare reazioni nel pubblico, di stabilire un’empatia.

Quando quella sera mi hai tirato da parte, per un attimo ho pensato volessi consolarmi per non aver vinto il primo premio. Mi stavo preparando a risponderti che non tengo in grande considerazione le vittorie e che ero soddisfatto dalla reazione del pubblico. Avresti fatto meglio a tacere e non mandare in pezzi il mito che di te avevo costruito nel mio immaginario.

Carissimo signor Kiarostami, tu non ha diritto di accusare noi di fare del cinema militante solo per ripulire la tua coscienza di moderato silenzioso. Per tutti questi anni hai girato pellicole che non avevano alcun rapporto con la politica e con la nostra società, ed è assolutamente ovvio che si tratta di un tuo diritto.

Anche se, va detto, se lo avessi fatto, se avessi schiuso le labbra a criticare l’ingiustizia del tiranno, avresti sicuramente goduto di margini di intoccabilità superiori al nostro. Se io e Jafar, con tutto quello che abbiamo subito, godiamo della solidarietà degli organizzatori dei festival e di qualche cittadino informato in giro per il mondo, per te, se solo ti avessero toccato, sarebbe sceso in campo l’ONU!

Ma come ho detto il silenzio è un tuo diritto. Quello che non è un tuo diritto è il rilasciare interviste che vengono poi pubblicate con sorriso soddisfatto dai media del regime. Come ti permetti di deridere il desiderio degli autori di affiancare, con le loro opere, il popolo in lotta? Con un linguaggio, oltretutto, che fino ad oggi ha identificato i media del regime e il clero più oscurantista.

Dici che non c’è paese al mondo meglio dell’Iran per fare cinema. Forse è vero per i film che giri tu, ma per chi desidera fare un cinema come il nostro, l’Iran è una caserma. Come fai a definire un paese che mette in atto la più rigida delle “il miglior paese per girare dei film”?

Quando ai nostri registi, uno dopo l’altro, viene ritirato il passaporto, e Panahi perde la possibilità di iniziare un’importante coproduzione internazionale, con che coraggio non solo non li difendi, ma addirittura li critichi perché non girano film in Iran, notoriamente “il miglior posto al mondo per girare un film”? Forse non capisco la tua ironia, ma non ho visto nessuna traccia di humour nelle tue parole. Se davvero credi a quello che dici, allora per quale motivo il tuo ultimo film è girato a 5000 chilometri dall’Iran, in Toscana?

Nella stessa intervista diventavo bersaglio delle tue frecciate: “se Ghobadi crede di poter fare del buon cinema fuori dal paese gli faccio i miei auguri; da quel che ho visto io, per quelli che hanno fatto questa scelta, le cose sono andate diversamente”. Io non ho abbandonato il mio paese. Io sono stato CACCIATO dal mio paese, perché mi si è impedito di lavorare! E nonostante questo, mentre tu eri in Toscana a girare, io stavo girando a Teheran. Non voglio pensare che stai proiettando te stesso su altri.

Se io, come ogni patriota, mi preoccupo per il mio paese, se lo faccio attraverso dei film, lo faccio perché la società ha fatto di me un regista. Non lo faccio per istigare i giovani a lasciare il paese, non è l’obiettivo del mio film, che presto sarà distribuito gratis nel paese. E allora tutti potranno giudicare.

Hai detto: “l’unico posto in cui posso dormire tranquillo la notte è casa mia…”. Come fai a dormire la notte, quando tutto il mondo sa quello che capita ai nostri giovani? Come riesci a dormire, quando i tuoi compatrioti non prendono sonno preoccupati per il loro futuro e quello dei loro figli? Cosa ne sai di come ci si sente, quando il tuo film ha successo a Cannes ma tu finisci in prigione, quando vieni inquisito per le interviste che hai rilasciato e in cui hai parlato della situazione del tuo paese?

Io ho provato tutto questo nella mia carne e nelle mie ossa. E’ per questo che non riesco a prendere sonno. E’ per questo che la situazione in cui oggi versa il paese è per me più importante del cinema. E’ per questo che accetto persino di rinunciare al mio lavoro pur di restare accanto ai miei compatrioti. Mi manca tanto quel monolocale dove di notte dormivo beato. Ma tu dormi pure tranquillo, tu che puoi.

Hai scritto: “voglio girare i film nel mio paese e nella lingua di mia madre”. Perché non ti hanno mai ridotto al silenzio per il fatto di essere curdo e sunnita. Ma in quello stesso paese che è anche il mio, non mi è stata mai data l’autorizzazione per girare un film nella lingua di mia madre.

Anch’io amo il mio paese. Anch’io amo girare film nella lingua di mia madre. Ma questo piacere mi viene negato perché non sono stato zitto. Tu hai tutto questo al prezzo del tuo silenzio. Avresti fatto bene ad andare per la tua strada. A restartene silenzioso a casa tua, in fondo a quel vicolo cieco, a dormire il sonno dei giusti. A lasciarci stare in compagnia della nostra gente, quella gente il cui futuro ci preme più del nostro cinema. Che bisogno c’era di mettersi a dire le cose che già dicono quelli che opprimono il popolo?

Caso signor Kiarostami, in questi giorni che stabiliranno il destino del nostro paese, che tu voglia o non voglia, giusto o sbagliato che sia, l’unica misura della rispettabilità e dell’onore di una persona è se sta dalla parte del popolo o da quella dei suoi oppressori. Tu, con le tue parole, hai criticato la nostra decisione di stare dalla parte del popolo con il nostro lavoro, la nostra arte, con la nostra voce nei festival.

Il popolo non dimenticherà il silenzio degli artisti. E il popolo è il migliore dei giudici.

lunedì 9 novembre 2009

Qualcuno riconosce un odore antico


Traduco alcuni brani di un'analisi dello storico iraniano Abdollah Shahbazi, fondatore dell'Istituto delle Ricerche Politiche dell'università di Teheran, sul suo blog. Non che la persona mi sia particolarmente simpatica, anzi. Certo Wikipedia va preso con le molle, ma la sua pagina non è particolarmente lusinghiera a mio modo di vedere.

Da quel poco che ho letto sul suo blog mi pare molto vicino ad un antisemitismo abbastanza dozzinale e alle teorie del complotto, come alcuni nazi-maoisti di nostra conoscenza. Non le ritengo colpe emendabili, ed è roba quanto più lontana possibile da una visione scientifica, materialista e marxista della storia. Sebbene l'analisi che sto pubblicando sembra essere abbastanza lucida puntuale, altrimenti non mi ci sarei messo.

Il “male del complottismo” in realtà sembra particolarmente diffuso tra gli storici iraniani, e anche nella società. Il che è abbastanza curioso: un popolo che da un secolo e mezzo ogni trent’anni dà inizio a una rivoluzione, dovrebbe conoscere il peso delle masse nella dialettica storica. Eppure subito dopo la rivoluzione sentivi cose tipo “Khomeini è stato messo su dagli americani per danneggiare i russi”, anche da fonti colte e insospettabili che avevano partecipato alla rivoluzione personalmente. Un argomento che mi fa credere che – durante una rivoluzione – il popolo si trova in uno stato di semi-incoscienza, e che non riconosce più se stesso dopo, a giochi fatti.

Comunque, dicevo, nonostante il personaggio non mi sia particolarmente simpatico, trovo che quest'analisi sia lucida e che la sua opinione sia rappresentativa di chi vive gli eventi attuali da “dentro” il regime. Opinioni che mostrano ancora una volta l’isolamento di Ahmadinejad e di ciò che egli si porta dietro. Anche tra intellettuali fedelissimi alla repubblica islamica e alla visione complottistica del mondo, pienamente in linea con la dottrina dell'imam Khomeini.

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Rivolta o rivoluzione?

La sera del 4 novembre ho deciso di fare un giro per le strade, prestando molta attenzione. Ho visto un grosso assembramento nel cortile dell'Università di Shiraz, circondato da Pasdaran e da provocatori in borghese. C'era anche un'insolita presenza di persone comuni sui marciapiedi intorno alla zona, che all'apparenza stavano passeggiando, ma che in realtà aspettavano solo una scintilla per intervenire. Sono tornato a casa e ho seguito i notiziari della notte, giungendo a delle conclusioni.

Non vedo necessità alcuna di trattenermi, dunque parlerò tranquillamente fuori dai denti. La mia storia e le mie preferenze politiche sono note a tutti e quindi non serve nessuna prefazione. Insomma vado dritto al punto.

Nella dialettica politica e sociale contemporanea assistiamo due avvenimenti, diversi tra di loro, ma che inizialmente assumono forme assai simili: le rivolte urbane e le rivoluzioni sociali.

Le rivolte urbane sono eventi collegati al concetto di urbanizzazione e alla peculiare composizione demografica e sociale delle grandi città occidentali. Composizione che, a partire dal secolo XIX, si è estesa anche a realtà extraeuropee. Non sono state poche le rivolte urbane negli ultimi due secoli, un sommario elenco delle quali è presente su wikipedia in lingua inglese.

La rivoluzione è un evento completamente diverso che ha profonde radici sociali. Nella rivoluzione, grandi masse popolari si ritrovano unite intorno a desideri comuni di tipo sociale o economico. La rivoluzione inoltre si manifesta in modo molto chiaro come negazione della condizione presente, mentre non è altrettanto chiara la condizione futura che si desidera.

Le rivolte sono eventi passeggeri pur avendo cause sociali complesse. Possono essere dotate di una spettacolare forza distruttiva, come a Los Angeles nel 1992 o a Parigi nel 2005, ma si esauriscono in un tempo breve. La loro presenza non è di per sé segno di instabilità del sistema. Le rivoluzioni al contrario possono iniziare in sordina ma, data la profondità delle loro radici sociali, non sono eventi passeggeri e fatalmente finiscono per modificare l'assetto politico del paese.

Le rivolte non sono eventi ignoti: sono studiate nelle università e v'è una consistente bibliografia sull'argomento. Inoltre, dato che l'evento accompagna da molto tempo le società contemporanee, le forze di polizia sono in genere adeguatamente addestrate e preparate a farvi fronte. Contro una rivolta in genere la forza è efficace, perché affronta la teppaglia. Ma anche in una rivolta la polizia tende ad usare solo il minimo di forza necessario, evitando di esacerbare ulteriormente gli animi: l'obiettivo è contenere la violenza e riportare la calma, non il contrario.

Non si può affrontare una rivoluzione allo stesso modo. Non si ha di fronte della teppaglia, ma vasti gruppi sociali motivati e non pochi intellettuali. Un regime che cerca la stabilità non può affrontare una rivoluzione con le stesse armi che usa per affrontare le rivolte. Una scelta di questo genere conduce inevitabilmente ad un confronto sanguinoso con la rivoluzione, la caduta violenta del regime, e la disgregazione della società.

Ovviamente si può tentare di contenere per qualche tempo una rivoluzione con la repressione: la rivoluzione russa del 1905 e del 1907, oppure i moti del 1963 e 1964 in Iran, ne sono un esempio. Tuttavia si tratta di casi in cui la repressione in ultima analisi non funzionò: in entrambi i casi la rivoluzione trionfò più o meno un decennio dopo.

Che cosa vedo?

Bisogna osservare gli eventi degli ultimi 5 mesi e mezzo con onestà intellettuale. Va prima osservato correttamente il fenomeno, e poi va cercata la cura. Se un analista, per un pregiudizio ideologico o per orgoglio, non comprendesse correttamente il fenomeno, naturalmente anche i rimedi saranno errati. Negli ultimi mesi, ciò al quale io credo di assistere è il tentativo maldestro di far passare il fenomeno in un modo diverso da ciò che è in realtà. Continuando su questa strada si getta benzina sul fuoco, e gli eventi che seguiranno saranno irrimediabili. Ciò che io osservo non è una rivolta. La sua intensità non è diminuita dopo le prime repressioni, è aumentata. Non si sta esaurendo, sta durando. Non è circoscritto, si allarga.

Ho sentito molti amici, per telefono. E' necessario che non si affronti questa cosa come una rivolta. Non abbiamo di fronte una rivolta, ma una rivoluzione. Sono certo che le mie parole non troveranno spazio nei media, perciò uso il mio blog. A molti la parola "rivoluzione" non fa piacere, molti non osano pronunciarla. Ma bisogna osare. Io mi sento responsabile. Oggi abbiamo ancora delle opzioni che, temo, domani non saranno più a portata di mano. Temo la guerra civile.

Che fare?

Preso atto che siamo di fronte ad una rivoluzione, possiamo tentare alcuni rimedi.

Anzitutto va notato che, diversamente dalle rivoluzioni del passato, i leader riconosciuti e rispettati di questa rivoluzione non desiderano rovesciare il sistema ma correggerlo. Il popolo poi rispetta la volontà di questi leader, la prova è l'abbandono dello slogan "repubblica iraniana" come aveva richiesto Karoubi. Il popolo delle piazze poi è diverso dalla plebaglia della Rivoluzione Francese. E' accorto e istruito, e non finirà così facilmente preda di politici e demagoghi improvvisati. Sono tutte buone notizie per coloro che desiderano il ritorno agli obiettivi originari della rivoluzione del 1979.

Se le mie parole avessero un qualche peso, chiederei di soffermarsi e meditare.

Se le mie parole avessero un peso, chiederei che si avviassero colloqui con Mousavi, Khatami e Karoubi e si lavorasse per il futuro del paese. Ricorderei che nel 1848 gli inglesi appoggiarono in Francia un uomo che non contrastava i loro interessi: Napoleone terzo. Ricorderei come i tedeschi nel 1917 appoggiarono Lenin, per ottenere una pace separata con la Russia. E' mai possibile che il regime non riesca e non voglia dialogare con personaggi come Mousavi, Khatami e Karoubi, che si definiscono fedeli alla Repubblica Islamica e le debbono l'intera carriera politica? E' possibile che il regime preferisca isolare questi leader moderati, e veder trasformare la protesta in un'onda cieca e informe che tutto travolge, pronta per essere cavalcata da avventurieri? E' possibile che ci si voglia comportare al contrario della logica?

Se le mie parole avessero un peso, chiederei che ad Ahmadinejad venisse immediatamente revocata la presidenza da parte del Parlamento, per grave incapacità. Chiederei che venisse immediatamente processato, in un vero processo, per essere stato causa dell'inizio di un'ondata rivoluzionaria nel paese. E per aver spinto il paese verso crisi interne e internazionali continuamente, per tutti gli anni in cui è stato in carica. Al punto che persino gli intellettuali vicini alla destra conservatrice oggi lo considerano "una piaga dal cielo" o un "male incurabile".

Se le mie parole avessero un peso, chiederei che i direttori pagliacci dei media nazionali, e molti imam del venerdì, vengano rimossi ed alcuni di loro processati per aver complottato ai danni della nazione.

In una parola, se le mie parole contassero qualcosa, chiederei che "i saggi della tribù" si riuniscano, lascino da parte i propri gusti e i propri passati politici, e trovino una via d'uscita per il paese.

«Ma dici a me? Ma dici a ME??»

Nell'attesa di venire assalito dalla voglia di riassumere e tradurre 48 pagine di intervista di Hanaa Makhmalbaf al padre Mohsen, traduco questa breve intervista del gruppo Facebook "green revolution" al regista. L'intervista fa seguito alle minacce di "provvedimenti" non meglio specificati da parte di un capo dei Pasdaran contro gli attivisti del movimento fuori dal paese.

Green Revolution: Signor Makhmalbaf, l'Arma dei Pasdaran ha dichiarato che lei, Sazegara e un gruppo di altre persone, sareste i capi residenti all'estero del movimento verde, e vi ha minacciati pubblicamente. Crede che tali minacce possano essere tradotte in fatti?

Mohsen Makhmalbaf: Già un paio d'anni fa in Afghanistan, durante le riprese di un mio film, un elemento legato ai Pasdaran ha lanciato una granata d'assalto sul set. Va detto che allora il regime cercò di incolpare l'instabilità dell'Afghanistan mentre ora opera più alla luce del sole e rivendica prima.

G.R.: Come fa a sapere che l'attentato in Afghanistan fosse opera dei Pasdaran?

M.M.: Le persone presenti sul set riconobbero l'attentatore. Poi, un anno dopo, fu arrestata una cellula composta da elementi iraniani da una parte e da elementi afghani legati ad al-Qaeda dall'altra. La cellula rivendicò 13 attentati tra cui quello al nostro set.

G.R.: Crede che questa minaccia finirà per far diminuire l'attività del movimento all'estero?

M.M.: Perché? Forse le uccisioni, gli arresti, le torture, hanno fatto diminuire le attività del movimento dentro al paese, per riuscirci all'estero? Il movimento di opposizione nasce dalla rabbia per trent'anni di dittatura. Questo movimento, se non riuscirà a riformare, abbatterà. Che io o quelli come me siano vivi o morti. E poi non è che il nostro sangue valga più di quello di Neda. Noi non abbiamo paura del martirio. Il martirio è l'apice di una vita passata nella lotta. Io, quando avevo 17 anni, sono stato arrestato e condannato a morte. Ma il regime dello Shah era tutto sommato più umano, e dato che ero minorenne ha convertito la pena in 5 anni di carcere. Ricordo che piangevo per la delusione, e lo può testimoniare Hadi Khamenei fratello del Leader. E oggi, dopo la morte di Neda, molti di noi sono tornati diciassettenni e con la stessa passione di allora.

G.R.: C'è una questione di costi e benefici. Il regime non è ancora riuscito a riprendersi dall'eco internazionale della prima ondata di repressione. Se iniziasse a mettere in pratica operazioni terroristiche fuori dal paese, finirebbe per perdere qualunque presentabilità estera restando isolato. Negli anni immediatamente successivi alla rivoluzione del 1979 ci saranno state più di cento uccisioni all'estero portate a termine da agenti della Repubblica Islamica, ma ad un certo punto il regime decise di porre fine a quel modo di operare. Esiste la possibilità che, spinto dalla paura, il regime le riprenda?

M.M.: Ammettiamo che uccidano uno di noi, quello che facevamo sarà fatto da qualcun altro. Le uccisioni che hanno già portato a termine non hanno fermato il movimento. Da mesi stanno mettendo sotto pressione Khatami, Mousavi e Karroubi perché parlino contro i militanti esteri del movimento. Appena settimana scorsa hanno interrogato per tre ore Mohammad Reza Beheshti per fargli fare i nomi dei leader del movimento fuori dal paese.

Speravano per questa via di poter creare delle divergenze nel movimento tra militanti residenti e militanti all'estero. Prima dicevano che la gente è stata provocata dai leader riformisti residenti nel paese. Ora dicono che i leader sono all'estero. La verità è che la gente non li sopporta più. Khamenei sta impazzendo per il fatto che dispone dell'Arma, del potere, di minacce e di premi, eppure tutti amano Montazeri! Tutti amano Khatami e Karoubi! E quindi ora tornano a minacciare, senza capire che il popolo non ha più paura.

venerdì 6 novembre 2009

Mercoledì da leoni

Alcune annotazioni sparse sulle manifestazioni di mercoledì.

Numeri: elevati. Gli stessi della giornata di Al-Quds, ma in più città. Il regime ha portato a Teheran qualcosa come 50.000 tra bassij e fedelissimi per poter creare una "bolla" di irrealtà intorno alla ex ambasciata statunitense. Questo ha lasciato campo libero all'opposizione nelle maggiori città e un po' in tutto Teheran.

Le tattiche di lotta antifascista messe in atto fino a questo momento in Iran stanno assumendo caratteristiche interessanti e inesplorate, che potrebbero venir bene anche altrove. La tattica di sfruttare le ricorrenze del regime per rovesciarle contro il regime stesso, ad esempio, priva il regime di una potente arma ideologica: quella di far credere di avere l'appoggio delle masse. Oggi il regime vive come un incubo le ricorrenze che un tempo lo celebravano.

Oltretutto l'Iran è particolarmente ricco di ricorrenze di questo tipo: religiose (Ashura), politiche (11 febbraio anniversario della rivoluzione del '79), o tradizionali (il salto dei falò l'ultimo mercoledì dell'anno solare persiano). Per citare solo le tre maggiori da qui al 20 marzo 2010.

Degno di nota la manifestazione di Tabriz. A Tabriz il regime era stato particolarmente duro. Anche perché per qualche motivo (legato a quasi 150 anni di moti), in genere si dice che quando si muove Tabriz il governo centrale ha i mesi contati. Altro particolare degno di nota è il fatto che il regime ha mandato un politico di retroguardia e di bassissimo profilo alla manifestazione "ufficiale" tenutasio davanti alla ex-ambasciata, mentre la ricorrenza richiedeva personaggi di primo piano. L'impressione è che tiri aria di sfaldamento, insomma che nessun alto papavero ami rendersi particolarmente visibile.

Testimonianze dirette confermano che la repressione è stata portata avanti dai soli pasdaran, in parte organizzati in regolari reparti anti sommossa, e in parte come infiltrati e provocatori. La polizia si è fatta da parte e in alcuni casi avrebbe pure dato alla gente utili consigli sugli incroci e le vie da evitare. Gli stessi pasdaran non hanno confrontato per uccidere. Insomma per fortuna non si hanno notizie di morti. Botte sì, e tante, ma niente morti.

A questo proposito devo dire che nel 1977, a sei mesi dall'inizio dei primi moti contro lo Shah, i morti erano molti di più. Il paese non era nemmeno dotato di reparti anti sommossa. Era l'esercito che gestiva l'ordine pubblico, e lo faceva sparando nel mucchio. Non dico che questo regime è meno fascista o che meriti maggiori riguardi. Insomma se è per i riguardi, allora Changiz Khan ammazzava anche più dello Shah! No, non è questo il punto, dico solo che il paese è cambiato. Ha avuto una sua evoluzione e, nonostante tutto, oggi è più civile di allora. Una cara amica m'insegna che si chiama "funzione civilizzatrice del capitale".

"Uno degli aspetti in cui si manifesta la funzione civilizzatrice del capitale è quello di estorcere [...] pluslavoro in un modo e sotto condizioni che sono più favorevoli allo sviluppo delle forze produttive, dei rapporti sociali e alla creazione degli elementi per una nuova e più elevata formazione, di quanto non avvenga nelle forme precedenti della schiavitù, della servitù della gleba, ecc." [il Capitale - libro terzo].

Traducendo: come dallo schiavismo si passa al lavoro salariato senza che sparisca lo sfruttamento, dall'affrontare la folla con i fucili e le baionette si passa alla polizia anti sommossa e al manganello senza che sparisca il fascismo. Oppure magari dal foulard si passa al piercing sulla lingua senza che sparisca il disagio femminile.

Ma, detto questo, vedere all'opera la funzione civilizzatrice del capitale "dal vivo", mentre provoca rotture con tradizioni che ieri sembravano indiscutibili, vedere tutto questo è un vero spettacolo della storia. Uno spettacolo al quale ho avuto il privilegio di assistere per due volte. Potrò dire di aver vissuto tempi interessanti. E ho la sensazione che il vecchio Marx avrebbe deriso parecchi sedicenti suoi seguaci di oggi, vista la loro insistenza nell'impedire lo sviluppo del capitalismo fuori dalla "culla" euro-americana.

mercoledì 4 novembre 2009

Comunicato congiunto di M. Makhmalbaf e M. Sazegara

[Traduco]

Il popolo iraniano stanotte non ha dormito, chiedendosi quando le tenebre avrebbero lasciato il posto alla luce del giorno.

I pasdaran, stanotte, da mezzanotte in poi, hanno circondato con le loro moto la casa di Mousavi per impedire a lui e ai suoi compagni di uscire e raggiungere i sostenitori.

Fin dalle prime ore del mattino, un popolo stanco di un regime che si dichiara nemico dell'umanità intera è uscito per le strade, dichiarando la propria amicizia a un mondo stanco di guerre e di odio. Ma si è trovato di fronte alla selvaggia repressione di un regime impaurito. Un regime che senza nemici e senza repressione non esisterebbe.

Si sente di nuovo sussurrare chi chiede di processare Karoubi, di continuare a tenere agli arresti domiciliari Mousavi.

Noi diamo un avvertimento al governo del golpe: non costringete alla follia della rivoluzione un popolo che ha già oltrepassato i limiti della paura e della rabbia. Un passaggio calmo dalla dittatura alla democrazia è un bene per tutto il paese.

Noi sappiamo che è la paura a costringervi ad una reazione selvaggia: calmatevi. Dormite la notte, in modo da poter ponderare più serenamente. Il nostro popolo ha a cuore un domani sereno per tutto il paese, non sogna la vostra esecuzione.

Dittatori del nostro Iran, tu Khamenei, dittatore più grande: cerca di dormire un poco. E' per noi che è giunto, ormai, il momento della veglia.

Mohsen Makhmalbaf
Mohsen Sazegara
4 novembre 2009

4 novembre, giornata dello studente

Tra le varie ricorrenze celebrate il 4 novembre in Iran, ve n'è anche una che commemora un sanguinoso massacro.

Il 4 novembre del 1978 alcune centinaia di studenti delle medie superiori di Teheran si radunarono di fronte all'università per manifestare contro il regime dello Shah. Ma le porte dell'università rimasero chiuse: una squadra di polizia si trovava stabilmente dentro l'edificio e non fece aprire i cancelli.

L'ateneo fu presto circondato dall'esercito che intimò agli studenti di disperdersi. Questi rifiutarono, e vennero presi di mira dal fuoco diretto dei soldati. Morirono decine di ragazzi dell'età compresa tra i 13 e i 18 anni. Da allora il 4 novembre, il 13 di "Aban" del calendario solare persiano, è la giornata nazionale dello studente.

Alla diffusione della notizia del massacro il ministro dell'istruzione si dimise in nottata, e il governo di Sharif Emami cadde l'indomani. Lo Shah nominò premier il generale Azhari e tirò avanti ancora per un anno.

Oggi, per la prima volta dagli eventi di giugno, in diverse scuole superiori si sono viste manifestazioni spontanee contro il regime: i pasdaran hanno cercato di "arruolare" gli studenti per mettere in scena una partecipazione popolare pro-regime per la manifestazione di domani, e in molti casi si sarebbero trovati di fronte al rifiuto più o meno rumoroso dei ragazzi con tanto di slogan.

Un blogger scrive che nella sua scuola, una scuola maschile della zona due di Teheran, si erano presentati dei bassij con delle fasce da legare intorno alla fronte. Le fasce erano verdi, ma con sopra scritto "Khamenei Leader". I ragazzi allora hanno legato i nastri tra di loro in modo che non si vedessero le scritte e hanno inscenato una marcia portandosi in giro per il cortile questo serpentone verde, gridando slogan a favore di Mousavi e Karroubi.

Il video qui sotto riguarderebbe questa scuola. La qualità è stata abbassata per evitare il riconoscimento dei ragazzi. Il preside, non potendo riportare la calma, ha dovuto chiamare la polizia.

domenica 1 novembre 2009

Fine dell'enunciato assoluto

Nei prossimi post tradurrò due analisi politiche. Una, quella di oggi, non firmata e proveniente dal gruppo facebook "rivoluzione verde" (انقلاب سبز), di carattere tattico. "Tattico" nel senso che cerca di cogliere un preciso sviluppo della situazione partendo dalla critica durissima rivolta da uno studente a Khamenei durante un incontro ufficiale. Evento talmente surreale da ricordare vagamente i blitz situazionisti degli anni settanta.

La seconda analisi sarà del regista Mohsen Makhmalbaf, intervistato dalla figlia Hanieh, che cercherà di fornire un punto di vista complessivo e articolato sulla situazione politica in Iran, e degli scenari che secondo lui ci attendono.

Cominciamo dalla prima.

***


Una sconfitta di velluto in una seduta tra amici

Mercoledì scorso una breve notizia ha fatto rapidamente il giro dei media. Durante una seduta istituzionale tra Khamenei e un gruppo di notabili e studenti eccellenti, uno studente è riuscito ad esporre una parte delle verità avvenute subito dopo le elezioni, con grande sorpresa e imbarazzo del Leader.

Durante lo stesso incontro il Leader aveva attaccato duramente i capi del movimento verde, dichiarando un "grave reato" mettere in dubbio il risultato delle elezioni. Ciò è stato interpretato dai più, con una certa preoccupazione, come l'inizio di un nuovo piano repressivo contro il movimento.

Tuttavia a noi tale preoccupazione sembra immotivata, dato che il regime golpista non ci sembra in condizione tale da poter mettere in atto simili minacce. Per dimostrare questa tesi evidenziamo due punti.

Nella situazione attuale quasi nessuno nel paese considera stabile il regime. E' inutile presentare memoriali, richieste di amnistia, doleances o critiche. Come abbiamo visto il regime non ha alcun desiderio di punire i responsabili delle illegalità, nemmeno quando questi si sono macchiati dell'omicidio del figlio di uno di loro. Qualunque discussione di questo tenore, con gente che considera "coraggio" la negazione dell'evidenza, è del tutto inutile.

Tuttavia l'intervento dello studente in questione non può essere definito propriamente "critica", e non può essere definito una lamentela indirizzata ad un'istituzione autorevole.

Quello studente è lo stesso "nemico di velluto" la cui voce sarebbe dovuta essere soffocata già nelle università, dagli ufficiali del regime. E' lo stesso nemico morbido che avrebbe dovuto ricevere una risposta durissima con gli stupri del campo di Kahrizak . Ciò non è accaduto, anzi. Il nemico di velluto si è insinuato, in modo vellutato, fin nel cuore del regime, e vi ha portato un attacco senza precedenti e devastante. Un attacco che ha chiarito come il potere non è al sicuro nemmeno nella propria fortezza.

Quel "vicario della Fede" (Khamenei, ndt), che in passato definiva il giusto e l'ingiusto, l'amico e il nemico, oggi è impotente di fronte all'infiltrarsi del nemico tra le sue stesse mura: il nemico è in casa sua, respira dietro le sue orecchie, e lo diffama ogni volta che lo desidera. Si dovrebbe chiedere, a chi crede ancora nella sacralità di una simile istituzione: com'è possibile che questo signore, impotente anche nella difesa di casa propria, possa difendere il seme dell'Islam dalle intemperie del mondo?

La maggioranza degli analisti hanno interpretato le recenti argomentazioni di Khamenei come un nuovo attacco ai capi del movimento verde, e come il suo benestare a dure condanne per i prigionieri. Forse in prima istanza queste conclusioni possono apparire corrette, ma va detto che la situazione politica del paese è assai differente, non solo rispetto a pochi anni fa, ma persino rispetto agli ultimi mesi.

Tenendo presente questo, e avendo in mente la pesante ed inaspettata requisitoria subita in casa propria, si deve concludere che parlare di "grave crimine" commesso da chi non accetta il risultato delle elezioni è solo un tentativo di difesa, volto a far passare in secondo piano il "lieve crimine" del golpe. I discorsi della Guida non nascono dalla mera volontà di ordinare una nuova e potente ondata repressiva. Nascono come manovra difensiva, resasi necessaria per evitare la completa implosione delle forze favorevoli al golpe (*).

Il signor "enunciato assoluto" (**) che negli ultimi 20 anni definiva politiche interne ed estere dei governi, senza mai esporsi personalmente, in modo del tutto irresponsabile e senza mai poter subire alcuna critica, dopo essersi visto snocciolare le proprie colpe (e nemmeno tutte) all'interno delle sue mura fortificate, è stato preso da un tale sgomento da arrivare ad approvare la natura eversiva del golpe pur di mettere in piedi una trafelata autodifesa.

Tutto questo si sposa con la situazione di imbarazzo e di erosione nella quale si trovano le forze golpiste. Le forze fedeli a "enunciato assoluto" avrebbero dovuto creare intorno a lui un cordone di protezione, accusando di "golpe" Mousavi e Karroubi . Ma non è servito a nulla. Il cordone è stato superato da un devastante virus di velluto, che ha messo in ridicolo vent'anni di messinscena chiamata "incontro amichevole del Leader con gli intellettuali".

I discorsi aggressivi del Leader non devono preoccupare. Sono una confessione. "Enunciato assoluto" sta pubblicamente ammettendo che nessuno lo considera più una fonte assoluta di enunciati. Sta ammettendo che le persone scendono per le strade senza il suo permesso, e sta pubblicamente ammettendo che i veri eletti del popolo - Mousavi e Karroubi - non prendono nella minima considerazione i suoi messaggi personali e i suoi pizzini.

Per osservare la realtà fisica della fine di "Enunciato Assoluto", è sufficiente confrontare la scompostezza dei suoi discorsi con la moderazione e la serenità dei comunicati di Karoubi e di Mousavi.

Il golpe si è impantanato e si avvia alla sconfitta, mentre il popolo è sulla strada della vittoria finale. Ma questa notizia per i golpisti è talmente dolorosa che sarà necessario farglielo capire poco alla volta. Il loro problema non è solo la sconfitta in una competizione politica: è la presa di coscienza della fine di tutto un discorso ideologico.

Noi oggi, avendo a cuore il bene del paese, dobbiamo correre in loro aiuto con empatia e compassione, in modo che possano accettare la realtà del paese con la minima quantità di violenza e devastazione possibile. Bisogna che costoro vengano persuasi del fatto che hanno perso, e che non è il caso che tormentino se stessi e il paese agendo in modo scomposto. In una parola i verdi non devono agire come coloro che hanno dubbi sulla vittoria finale. Non devono perdere la propria moderazione e la propria innocenza.

Senza dubbio la presenza calma e civile del movimento nella grande marcia del 4 novembre sarà un altro chiodo sulla bara del golpe (...) i verdi ora devono chiarire la propria politica, interna ed estera, senza alcuna ambiguità.

Durante le prime manifestazioni, il movimento ha chiarito la propria fede assoluta nell'indipendenza e nella sovranità nazionale. Durante la manifestazione della giornata di Al-Quds, poi, ha dichiarato in modo esemplare la propria politica estera regionale.

Oggi il popolo, come unico legittimo titolare di "enunciati assoluti", nella giornata che commemora l'ostilità del gruppo al potere con tutto il mondo (***), può dichiarare senza timori e balbuzie la fine di trent'anni spesi a fabbricare nemici. In modo da poter essere pronto per prendere in mano le redini dello stato, e far comprendere alle potenze estere che non è il caso di dialogare e contrattare con un governo destinato alla caduta.

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(*) Nota mia: anche il rifiuto di ratificare il protocollo atomico, già sottoscritto dai negoziatori e qui analizzato a suo tempo, va visto in quest'ottica. Oltretutto i negoziatori sono ora bruciati perché si sono giocati completamente la faccia.

(**) Tradotto da (فصل الخطاب): il potere del Leader di mettere la parola "fine" sulle questioni politiche e religiose. Qualcosa di simile al "Ahug!" del capo indiano. Con la differenza che i pellerossa nell'immaginario collettivo, e non senza ragioni, sono parecchio più sexy di Khamenei!

(***) Il 4 novembre è il trentesimo anniversario dell'irruzione degli studenti di Teheran nell'ambasciata americana, e la presa in ostaggio del suo personale, con l'accusa di spionaggio e complotto ai danni del governo rivoluzionario. Il personale venne liberato 444 giorni dopo, il giorno dell'insediamento di Ronald Reagan.