giovedì 31 dicembre 2009

Ripetersi di un'esperienza fallimentare

Con il post di oggi, l'ultimo di quest'anno, concludo l'analisi iniziata ieri traducendo un articolo pubblicato sulla pagina FB "Enghelabe Sabz" (rivoluzione verde).

Come prevedibile oggi sono riprese le proteste in modo diffuso, almeno a Teheran (Vali Asr, Vanak, cimitero) con molti arresti. Il regime ha portato a Teheran nuovi giocattoli (non dei tank come sembrava leggendo televideo, ma dei blindati antisommossa pesanti con idranti). In nottata la IRNA ha cercato di fare "bulesumme" (in ligure: intorbidire le acque), raccontando la balla che Mousavi e Karoubi erano scappati. E' arrivata immediatamente la smentita degli interessati ma sono virtualmente agli arresti domiciliari.

Intanto un articolo pubblicato sul sito di Mohsen Makhmalbaf, scritto dopo aver intervistato ex impiegati dell'Ufficio della Guida oggi fuggiti all'estero, sta suscitando non poche reazioni in Iran. L'articolo elenca dettagliatamente l'immensa ricchezza del Leader: ville, aziende, titoli, collezioni, jet e auto private incluse. Una ricchezza ottenuta - rivelano gli intervistati - mediante una percentuale fatta sparire dai ricavi del petrolio. Viene evidenziato anche il ruolo del figlio Mojtaba Khamenei come mandante principale della stagione degli omicidi seriali degli intellettuali (anni novanta) in seguito alla quale l'intelligence di allora fu decapitata per eversione.

Soprattutto tenendo conto che Khamenei è detto dai suoi essere un uomo modesto, e che nessuno conosceva ad oggi la portata delle sue ricchezze, l'articolo presumibilmente finirà per causare ulteriori problemi di credibilità al Leader e il disamore di non pochi suoi "devoti". Ragion per cui da un paio di giorni questa cosa viene stampata e diffusa capillarmente dal movimento.

Ma torniamo alla traduzione, come al solito abbastanza libera, dell'analisi di Enghelabe Sabz.

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Nella situazione attuale i verdi, nonostante i divieti, organizzano manifestazioni di massa in occasione delle ricorrenze del regime. Nei giorni successivi il governo è costretto ad affrontare gravi costi materiali e politici militarizzando le strade, e viene così additato come il vero responsabile dei disagi lavorativi e quotidiani che ne conseguono.

Non c'è più alcun dubbio sul fatto che il movimento, seguendo la politica della resistenza passiva e pacifica, influenza la politica del governo e si impone ad esso. Il governo dal canto suo non riesce ad uscire dall'impasse.

Qualcuno aveva visto nella manifestazione pro-regime organizzata ieri un segno della volontà del governo di scontrarsi con il movimento a tutti i costi. Ma la paura del governo delle ricorrenze del terzo e settimo giorno dalla morte dei martiri di Ashura (27/12/09) ha trasformato la kermesse in una mossa difensiva per far tirare il fiato agli apparati di repressione.

Non sarebbe giusto negare che l'intensificazione degli arresti dei personaggi e leader di primo piano sarà un danno. Ma il movimento ha ormai trovato un suo specifico percorso e una sua organizzazione consolidata, perciò non esiste più alcun motivo di preoccupazione: il movimento proseguirà sulla sua strada con costanza, mentre il regime non è nemmeno in grado di frenarne la crescita.

Entropia

Fino al 7 dicembre il regime era una dittatura militare. Da quel giorno, e fino al 18 di dicembre, si è trasformato in un regime ideologico e ha proseguito in questo modo fino ai giorni di Tassua e Ashura.

In quei due giorni abbiamo rivisto in campo una dittatura militare, dopodiché il regime è diventato poliziesco e ha cercato di riparare allo smacco subito arrestando in massa i cittadini. Evidentemente nemmeno questa via è stata efficace, e dal 29 dicembre vediamo nuovamente in campo la dittatura militare.

Il regime è circondato da una società civile favorevole ai verdi, e per mantenersi in piedi ogni settimana cambia la sua natura più volte. Queste metamorfosi in definitiva sfibrano l'ossatura del regime e lo fanno crollare da dentro: la sostanza del governo viene distrutta principalmente da se stesso.

La metà nascosta

Ogni azione importante del movimento segna una fine e un inizio. Nel giorno di Ashura per la prima volta la gente ha preso a difendersi. In assenza di una polizia imparziale la gente ha difeso se stessa e i suoi averi da sola, non si è dispersa ed è tornata a casa solo quando ha deciso.

Ciò che è importante notare è che in quei due giorni il popolo ha mostrato al governo soltanto metà della propria furia. Ogni volta che la folla arrestava degli aggressori, metà della gente cercava di convincere l'altra metà a lasciarli andare, a non fargli del male.

Questo è un avvertimento molto serio al regime, se sapesse ascoltare. Perché è vero che ancora oggi metà della gente dice all'altra metà "lascialo andare", ma è anche vero che l'equilibrio tra queste due tendenze dipende da come agirà il regime. Si può essere in disaccordo ed esserlo in modo insanabile, ma il teppismo e lo squadrismo non sono necessari, sono scelte.

Terrorismo: un gioco pericoloso, ma per chi?

Secondo le prime testimonianze l'assassinio di Seyyed Ali Mousavi è stato eseguito con le modalità di un atto terroristico premeditato. L'esperienza insegna che, quando un regime mette mano ad una strategia simile, prima o poi i gruppi di fuoco finiscono per operare in autonomia e seguendo un'agenda propria, magari rivolgendosi contro gli stessi mandanti originari.

Nei giorni di Tassua e Ashura il sangue versato non fu conseguenza di una strategia di repressione su vasta scala, ma di azioni autonome di singoli reparti. Una strategia di terrore mirato contro i volti noti dell'opposizione o i loro famigliari, più che fermare il movimento, conduce all'isolamento del Capo dello Stato e all'impossibilità di qualunque via di uscita pacifica per la sua persona.

I gruppi di fuoco spendono un capitale che si trova nelle tasche dei capi del regime, il cui costo è un ulteriore odio popolare nei loro confronti. In compenso non portano alcun vantaggio strategico perché il movimento non fa un passo indietro.

Riflessi all'estero

Il termine "disfatta completa" è l'unico che può essere utilizzato per definire la politica estera del regime.

Qui non ci stiamo riferendo alle durissime prese di posizione dei paesi esteri contro la repressione. Ciò che è più interessante è il tono delle diplomazie di paesi come la Francia e la Russia che chiedono "a entrambe le parti" di trovare una via di uscita dalla crisi politica [la Russia in particolare ha espresso rammarico per il fatto di essere stata identificata dal movimento come mandante del golpe, il che a suo modo è molto significativo, ndt].

Oggi la politica mondiale si è convinta che il movimento verde e i suoi leader sono una forza politica stabile della società iraniana, e che il fronte golpista rappresenta solo una parte del paese. In altre parole il movimento verde non è più considerato una semplice rivolta urbana o un movimento di opinione, ma una forza politica a tutto tondo riconosciuta e rispettata nello scenario internazionale.

Infine

In questi giorni le strade sono nuovamente militarizzate. Come temeva il Leader la gente si sta abituando ad arrivare tardi al lavoro o non andarci, a prevedere del tempo quotidiano per manifestare contro il regime o per affrontare una discussione politica.

La lingua del manganello e del lacrimogeno non ha prodotto effetti apprezzabili, e il regime ha ormai poco tempo per imparare un linguaggio diverso e tentare di dialogare coi cittadini.

Il regime e il movimento hanno due possibilità di fronte: lo scontro definitivo, oppure il tentativo di trovare insieme una via di uscita. Il movimento non ha fretta, ma non vede nella parte avversa alcuna volontà di dialogo. E il tempo non scorre a favore del regime.

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3, 2, 1, BUM! 'fanculo anche al 2009 e auguri a tutti!

mercoledì 30 dicembre 2009

Momentum

Volevo fare un post diverso, più precisamente sulla galassia di sigle paramilitari iraniane. E, partendo da qui, identificare (Lenin lo farebbe) l'apparato militare-industriale al potere. Ma devo rinviare a domani per "sopravvenuta ispirazione" su un argomento differente.

Il concetto di "momentum", proveniente dal gergo strategico militare, può essere reso abbastanza correttamente col termine "iniziativa". In una campagna militare l'esercito più potente decide tempi e modi delle offensive, mentre l'esercito più debole cerca di controbattere in difesa.

Lo stesso accade nei conflitti politici, e che abbiano o meno un aspetto repressivo non importa: la parte che costringe l'altra a rispondere (anche con una maggiore repressione) agli argomenti e le iniziative che via via propone è la parte che possiede l'iniziativa. La parte che non ha modo di proporre argomenti propri perché troppo preso a confutare quelle dell'avversario è la parte in difficoltà. Detta in modo diverso, costringere i media dell'avversario a parlare di te dimostra la tua centralità politica.

Quello che è successo dal giugno 2009 in poi in Iran indica appunto un sempre maggiore "momentum" mediatico a favore del movimento verde. Ciò è evidenziato dal fatto che - dopo le prime settimane di totale silenzio - oggi le testate nazionali sono concentrate su una quotidiana lotta ideologica contro il movimento e coloro che ne individua come "capi", nel disperato tentativo di frenare il vuoto che si sta formando alle spalle del governo. La cosa si nota così tanto che i ragazzi, scherzando (ma nemmeno troppo), dicono "in fondo chi ha bisogno di giornali e TV proprie? c'è il Keyhan e la TV!".

Dove stia il "momentum" è evidente anche nel campo delle iniziative, convocazioni, marce. Oggi dopo sette mesi c'è stata una manifestazione degna di questo nome organizzata dal regime (ma aspetto conferme sui numeri). L'organizzazione della manifestazione è partita la sera dell'Ashura: lettere nominali inviate dai ministeri ai dipendenti pubblici che li 'invitavano' a partecipare, pullman organizzati che raccoglievano gente da tutto il paese per concentrarla a Teheran, l'azienda di trasporto che regala biglietti per l'occasione, senza contare il fatto non secondario che nessuno ti manganella...

Diciamo che lo schieramento favorevole al regime ha degli indubbi vantaggi, e ci sta tutto, per carità. Ciò che è importante però è che tutto questo, più che indicare un risveglio delle forze sociali favorevoli a Khamenei, mostra invece chiaramente le difficoltà politiche di quella parte, e ne mette a nudo la crisi politica. Il regime è oggi costretto dalla costante iniziativa dell'opposizione a mettere insieme tutto il consenso che può e portarlo per strada, aiutandolo con qualche lente d'ingrandimento, e per di più dopo due tentativi falliti miseramente (la manifestazione "istituzionale" della giornata di Qods, e quella pagliacciata dopo la questione della foto dell'Ayatollah Khomeini strappata).

Persino se la folla così messa insieme andasse a casa di Mousavi, lo linciasse e avvitasse la sua testa su un palo di legno, si tratterebbe di un'iniziativa dettata dalla disperazione politica. Perché poi questa gente torna a casa, negli uffici pubblici, nelle decine di città dalle quali è stata prelevata, dove respira la politica viva dell'opposizione.

Le strade di ciascuna di quelle città torneranno così al loro padrone politico: la parte che da sette mesi è in grado di schierare folle in qualunque momento, nonostante la repressione, senza dover andare a prelevare gente da Gorgan o da Miandoab, senza il possesso dei media di massa tradizionali e sostanzialmente senza un'organizzazione verticale.

Due parole sull'organizzazione "a rete" del movimento per concludere. Questa gente sembra aver letto a fondo i saggi di Negri e Hardt sulla moltitudine e sul concetto di auto-organizzazione, il che non è affatto sorprendente se si tiene conto che siamo di fronte ad una delle gioventù più istruite del mondo islamico. Ma più probabilmente è anche il medium di comunicazione utilizzato che produce naturalmente questa forma di organizzazione.

La mia sensazione, e il mio consiglio, è che i metodi organizzativi e le pratiche di lotta del movimento verde iraniano debbano essere studiati a fondo. Non si sa cosa porterà il domani, hai visto mai che possano servirvi!

martedì 29 dicembre 2009

Le istituzioni della Repubblica Islamica

Noto - non senza piacere - l'aumento del numero di viandanti che buttano l'occhio in questa umile dimora. L'ospitalità persiana ha un protocollo molto rigido: prevede che l'ospite sia invitato almeno a prendere una tazza di tè e dei dolci, e che l'invito venga ripetuto con insistenza.

Una cosa di cui mi rendo conto ora è che proprio a causa dell'aumento dei contatti diventa necessario spiegare, a grandi linee, quali siano le istituzioni principali della Repubblica Islamica e in sostanza come abbia funzionato la vita politica ordinaria del paese prima della crisi. Consideratela una tazza di tè.

Se poi ho tempo cerco di scoprire come mettere il tutto in una specie di FAQ e linkarlo separatamente.

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Il vero "capo dello Stato":

A capo dei tre poteri, e comandante supremo delle forze armate, si trova l'istituzione della "Guida della Rivoluzione". Il ruolo fu dell'Ayatollah Khomeini diciamo per acclamazione, ma la costituzione prevede che la Guida venga eletta dalla "Assemblea degli Esperti" [majlese khobregan - مجلس خبرگان - vedi sotto].

L'elezione è a vita. Il ruolo può essere rivestito solo da un Ayatollah, cioè da un teologo sciita di massimo grado [Ayatollah ol-Ozma - آیت الله العظمی]. Dal 1988 è in carica nel ruolo di Guida l'Ayatollah Alì Khamenei.

I poteri e le "linee guida" del ruolo vanno analizzate e capite bene, perché si tratta di uno dei punti più importanti del conflitto politico in atto.

La necessità costituzionale di un leader religioso fonda le sue basi su un concetto centrale per il pensiero politico dell'Ayatollah Khomeini: il concetto del "Mandato Assoluto del Teologo" [Velayate Motlagheye Faqih - ولایت مطلقه فقیه]. Va detto che questo concetto è frutto di una interpretazione (l'Islam è una religione praticamente priva di una "ortodossia" nel senso cristiano del termine). Tant'è che non mancano teologi sciiti che hanno criticato il concetto, persino in Iran.

Cercando di essere breve: i difensori radicali del ruolo di "Guida" sostengono che chi lo riveste è il rappresentante vivente del Mahdì, insomma che si tratta di un'investitura divina e che il ruolo dell'Assemblea degli Esperti è solo quello di "scoprire" colui che Dio ha già scelto.

Non mancano le critiche a questa posizione, che è tutt'altro che universalmente accettata o necessaria. Intanto sparerei sulla croce rossa (ma son sempre 10 punti...) se dicessi che le strade del paese sono oggi in mano di milioni e milioni di critici che esprimono il loro scetticismo in un argomentato "morte a Khamenei".

Non mancano nemmeno critiche giuridiche e teologiche (Mohsen Kadivar). Ma a mio modesto parere la contraddizione più palese sta proprio nella costituzione della Repubblica Islamica: lo stesso testo che dà quel po' po' di potere al Leader, negli articoli 109 e 110 della costituzione stabilisce che l'Assemblea degli Esperti possa revocare l'incarico.

A questo punto o si ammette che Dio in quel caso ha cambiato idea (non sorprendetevi, il concetto esiste nella teologia islamica, e si chiama "bid'ah" [بدعة‎], ma resta un punto teologico assai problematico col quale in genere si preferisce non aver a che fare), oppure si ammette che il ruolo non è previsto avere natura divina e che è puramente immanente.

Riassumendo: il ruolo costituzionalmente previsto di Guida della Rivoluzione oggi è fortemente in crisi e molto probabilmente non sopravvivrà a Khamenei.

L'Assemblea degli Esperti:

Come spiegato dettagliatamente sopra, l'Assemblea degli Esperti ha il potere di eleggere, annullare una decisione, o addirittura sollevare dall'incarico il Leader. Ma tutto questo non è mai accaduto proprio per evitare uno scontro tra due delle più alte istituzioni dello stato.

L'Assemblea è costituita da un centinaio di membri eletti su base regionale a suffragio universale ogni 8 anni. La Costituzione non prevede particolari requisiti per la candidatura, ma successivi regolamenti interni hanno imposto il requisito di approfondita conoscenza della legge islamica aprendo la strada ad un vaglio censorio delle candidature da parte del Consiglio dei Guardiani [showraye negahban - شورای نگهبان - vedi sotto].

L'Assemblea è attualmente presieduta dall'Ayatollah Rafsanjani, che ha posizioni moderate ed è in aperto contrasto con il presidente Ahmadinejad, uomo di Khamenei.

Consiglio dei Guardiani:

E' composto da 12 membri, sei dei quali nominati dalla Guida, e gli altri 6 eletti dal Parlamento [Maljes - مجلس] tra un gruppo di candidati indicato dal capo del potere giudiziario (a sua volta nominato dalla Guida...).

Poteri: veto su qualunque candidatura al Parlamento e alla Presidenza, veto su qualunque legge o decreto del parlamento o del governo. In pratica è l'organo esecutore di un potere di veto il cui mandante è Khamenei. In una delle ultime elezioni del Parlamento ha negato la candidabilità a 3000 candidati riformisti, praticamente consegnando il parlamento ai conservatori.

Inoltre è di sua responsabilità la supervisione e l'appello durante lo svolgimento delle elezioni, ruolo che nell'ultima tornata elettorale ha svolto in modo quanto meno discutibile.

Consiglio per il discernimento dell'interesse dello Stato:

Nome splendido. Per il resto un organo di pura consultazione in contatto con il Leader e da lui nominato, e quindi senza alcun potere istituzionale concreto. E' presieduto sempre dall'Ayatollah Rafsanjani.

Il Majles:

Il Parlamento. L'istituzione politica più antica del paese tra quelle attualmente in attività, nata nel 1906.

Concentra in sé il potere legislativo, quello di fiduciare o sfiduciare un governo, di approvarne o rifiutarne i decreti, e quello di togliere il mandato del Presidente per impeachment.

Unicamerale, attualmente conta 290 membri eletti a suffragio universale. Ma le candidature devono essere autorizzate dal Consiglio dei Guardiani. In questo momento il gruppo dei conservatori detiene la maggioranza con 170 seggi, mentre gli altri seggi sono divisi tra riformisti e indipendenti.

Il Presidente:

Capo dell'esecutivo. Nomina il premier e i ministri e li invia per la fiducia al Parlamento e coordina il lavoro dei ministeri. Eletto a suffragio universale su base uninominale, a doppio turno in caso di mancato raggiungimento della maggioranza assoluta. Resta in carica per 4 anni e per un massimo di 2 mandati.

Attualmente la carica è rivestita da Mahmoud Ahmadinejad.

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Fine del servizio pubblico!

Concludo con una nuova nota di demerito per il TG3. Questione di sfortuna dato che non guardo mai nessun TG se non un paio di volte la settimana il TG3 e La7.

Il servizio fa vedere scontri per la strada e commenta "immagini che la maggioranza degli iraniani non vedrà mai".

Ma perché questa gente non prova a lavorare? ogni tanto dico... può essere bello, persino gratificante. Invece mi trovo a fare io gratis un lavoro che questi sarebbero pagati per fare. Ma brutto cretino! la maggioranza degli iraniani è l'attore di quelle immagini! ne vede di quelle che tu non vedrai mai, tutti i giorni!

Stiamo parlando e ascoltando "ocolingo" da anni e non sappiamo nemmeno quando è cominciata.

Nuove forme di lotta

Ricevo notizie della chiusura totale del bazar di Tabriz e almeno metà del bazar di Teheran.

Per esperienza so che, almeno durante lo svilupparsi di moti rivoluzionari, le analisi dei marxisti in genere sono estremamente azzeccate e aiutano a capire la situazione sul campo. Pertanto traduco dal persiano un articolo pubblicato sulla webzine "rahe tudeh" organo del partito comunista iraniano in clandestinità.

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La violenza messa in atto dal regime in occasione delle esequie dell'Ayatollah Montazeri e delle successive ricorrenze religiose di Tassua e Ashura ha dimostrato che non esiste alcuna possibilità di imporre al popolo la ritirata per mezzo della repressione.

Detto in un altro modo il popolo non accetta più di essere governato come in passato e pertanto il regime - pur avendo provato qualunque opzione e manovra - non sarà più in grado di governare il popolo.

Nel prossimo futuro saremo testimoni, da una parte, di nuove forme di lotta e di resistenza nazionale e, dall'altra, dell'aggiungersi di nuove forze al movimento. E' presumibile che ciò avvenga tra oggi e l'anniversario della caduta della monarchia, il 22 febbraio.

Non si sta parlando di lotta armata, e le nostre parole non devono essere interpretate in questo senso, sebbene non sia affatto escluso che parte delle forze armate confluiscano nel movimento. Oltre a ciò saremo testimoni di occupazioni, di un sempre maggiore sgretolarsi della sovrastruttura religiosa del regime con una sempre più marcata presa di distanza delle "hawza" islamiche.

La gente sta aspettando ogni giorno il momento adatto per insorgere. Come in tutti i precedenti storici, gli eventi imprevisti possono trasformarsi in occasioni. Un eccellente esempio è fornito dalla morte dell'Ayatollah Montazeri: in quell'occasione la nazione ha sì dimostrato la sua riconoscenza per un personaggio vicino al popolo, per quanto egli stesso un religioso e addirittura fondatore della Repubblica Islamica. Ma ha anche dimostrato di non lasciarsi sfuggire nessuna occasione per sfidare il regime e il cuore del potere, formato ormai da un gruppo di capi miliziani e mullah di regime.

La nazione, nell'Ashura di quest'anno, non ha dato retta alla propaganda del governo che invitava a concentrarsi solo sulle cerimonie di autoflagellazione. Il popolo quest'anno non ha fatto come gli sciiti dell'Irak o dell'Afghanistan che si insanguinano la testa e la schiena con colpi di catene e sciabolate. Al contrario ha alzato il proprio pugno contro la tirannia, esattamente come suggerì di fare l'Ayatollah Khomeini nel muharram del 1978.

Così nelle manifestazioni dell'Ashura di quest'anno l'obiettivo del popolo è stata la persona di Khamenei. Non in quanto religioso ma in quanto comandante in capo delle forze armate, e in quanto protettore istituzionale del colpo di stato del 12 giugno.

Al popolo non interessa quanto Khamenei sia manipolato dai miliziani, o cosa stia passando dietro le quinte: Khamenei, in quanto comandante in capo delle forze armate, è riconosciuto come il responsabile oggettivo della repressione e del golpe.

In questo articolo di analisi, che esce con un giornale che ci vede profondamente addolorati per i caduti degli ultimi giorni, vorremmo discutere di alcune questioni che vegono poste da analisti politici stranieri. Questioni alle quali essi stessi danno delle risposte, che però non condividiamo.

Una di queste sottolinea la supposta differenza tra il movimento di oggi e i moti che portarono alla caduta dello Shah nel 1978-79. Differenza rilevata nel fatto che le classi lavoratrici non si sarebbero ancora affiancate al movimento, e che ciò sia dovuto ad una redistribuzione degli introiti del petrolio divenuto base strutturale del regime.

Ora, coloro che hanno seguito attentamente le notizie dall'Iran negli ultimi due anni sono al corrente di numerosi e crescenti episodi di lotta sindacale, occupazioni di fabbriche e scioperi, tutte represse dal regime. Sono ancora in carcere i rappresentanti sindacali dei camionisti, come pure sono ancora in carcere i leader sindacali degli insegnanti e degli infermieri...

La differenza con il 1978, semmai, è che questa volta le agitazioni dei lavoratori sono iniziate prima del diffondersi di un movimento politico di opposizione al regime, mentre nel 1978 successe il contrario. Rendersi conto di questa differenza è importante perché fa comprendere la reale diffusione della base di malcontento e dà un'idea del modo in cui la lotta proseguirà.

Nel 1978, alla fine dell'autunno e dopo l'impantanarsi dell'esercito dello Shah tutto occupato a far rispettare il coprifuoco nelle strade, iniziarono i primi scioperi e le prime occupazioni. Tra queste, quella dei petrolchimici e dei giornalisti. Lo Shah cercò di affrontare anche queste lotte con la repressione, ma questa strada non era più percorribile in quanto l'incendio della rivoluzione ormai divampava in tutto il paese.

Così gli scioperi e le occupazioni divennero la forma di lotta principale, dato che erano meno costosi in termini di vite umane. Ma in questi scioperi l'aspetto politico era prioritario rispetto all'aspetto contrattuale e salariale [*].

Questo è proprio il punto al quale si è prestato meno attenzione. La morte dell'Ayatollah Montazeri e gli eventi successivi hanno mostrato la portata del malcontento e la sua diffusione tra i più svariati strati della popolazione, sia tra le classi (persino i religiosi) sia in senso geografico (nella profonda provincia). Questo costringe la repressione volente o nolente a dividere le forze, il che finirà fatalmente per provocare un'emorragia anche tra queste stesse forze.

Sono qui che iniziano le opportunità per le nuove forme di lotta come nel 1978. L'operaio, l'insegnante, l'infermiere, e persino il negoziante del bazar, contrariamente a quel che si crede sono già schierati con il movimento, ma per ora ciascun settore sociale partecipa alle dimostrazioni nelle strade secondo le proprie priorità e possibilità.

Ciò che ancora manca - e le condizioni per ovviare a questa mancanza si stanno velocemente concretizzando - sono appunto gli scioperi e le occupazioni di fabbrica. Ed è in questo che consiste il salto qualitativo, la nuove forma di lotta, che ci dobbiamo aspettare.

[*] Tanto è vero che il regime, per nascondere l'estensione dello sciopero, arrivò a pagare lo stesso la giornata ai dipendenti pubblici che scioperavano. Episodio capitato a mio zio buonanima nell'estate del 1978, che, insieme ad altri, rifiutò il denaro.

lunedì 28 dicembre 2009

Aldo dice "26 per 1"

Quella di ieri è stata un'insurrezione. Il modo in cui la popolazione, scesa per strada in massa per la commemorazione dell'Ashura, ha affrontato le forze dell'ordine, ha avuto qualcosa di nuovo e di non visto precedentemente.

La tattica della polizia di impedire il formarsi della testa del corteo non ha funzionato molto bene stavolta, soprattutto per i numeri ma anche per una certa flessibilità tattica del movimento: anziché vedersi in un luogo di concentramento per procedere in corteo, quasi simultaneamente tutto il percorso previsto si è riempito di gente (Vali Asr in particolare), con la folla che premeva da tutte le vie e viuzze laterali travolgendo i cordoni.

Quasi dappertutto venivano distrutte le telecamere per il controllo del traffico per rendere "cieco" il nemico che, per questa ragione, ha dovuto usare molti più elicotteri.

I bassij a detta dei testimoni erano praticamente in panico. In generale si sono nascosti dietro ai pasdaran e alla polizia ordinaria. La polizia stessa poi era sempre più restia a mettere in atto una repressione chiaramente antipopolare, e vi sarebbero stati non pochi casi di diserzione. Così per la prima volta si sono viste foto della polizia antisommossa ripresa di schiena e in fuga, oppure chiusa in un angolo, inerme e incapace di organizzare cariche.

Khamenei è stato trasferito in una caserma in elicottero, probabilmente perché garantirgli la sicurezza a casa sua costava troppo in termini di uomini.

Secondo voci insistenti e diffuse lo stato maggiore delle forze armate (che essendo "di leva" vanno distinte dai Pasdaran e Bassij) avrebbe comunicato a Khamenei che - in caso di un chiaro ordine di sparare sulla gente - l'esercito avrebbe preso il potere esautorando il governo in carica.

Va detto che gli alti gradi delle forze armate sono certo fedeli al regime da molti anni, ma è anche altrettanto ovvio e logico che non abbiano nessuna voglia di legare il proprio destino personale a quello di Khamenei e Ahmadinejad (obiettivo diretto della furia popolare), macellare il popolo, e magari poi finire fucilati come i generali dello Shah. Il destino dei Pasdaran invece è già legato a quello della Guida. Volendo fare il paragone sono come la "guardia immortale" che fu l'ultima ad arrendersi l'11 febbraio 1979.

Il che mi fa pensare che la dozzina di morti di ieri tra Teheran e provincia (a parte l'assassinio premeditato del nipote di Mousavi) fossero episodi locali: ad esempio qualche reparto alle strette o in fuga che perde il controllo e reagisce sparando. Perché, data la situazione, con l'ordine diretto di sparare i morti non sarebbero stati meno di mille.

L'insurrezione è proseguita in nottata. A Teheran, per la massima parte intorno all'ospedale dove era stato portato il corpo del nipote di Mousavi, e anche di fronte alla sede dell'IRIB (agenzia di stampa del regime). La convinzione diffusa è che ormai il regime sia un guscio vuoto, e che perdendo la televisione imploderà.

Fuori da Teheran la situazione è altrettanto tesa: Najaf Abad, città natale del recentemente defunto Ayatollah Montazeri, è talmente fuori dal controllo da giorni che il governo avrebbe dichiarato lo stato d'assedio col coprifuoco serale, ma i dettagli dello stato d'assedio andrebbero confermati. Il coprifuoco sarebbe stato dichiarato anche nella città di Arak.

Manifestazioni con gravi scontri si segnalano anche a Isfahan, Shiraz, Tabriz (4 morti), Babol (un morto) e Rasht.

Oggi molti negozi erano chiusi e molta gente non è andata al lavoro. Forse è la prova dello sciopero generale, dato che in nottata c'è stato un forte giro di 'tweets' e SMS che invitavano tutti a restare a casa oggi. Ma va anche detto che lo sciopero generale per essere duraturo necessita di una pianificazione più dettagliata.

Ultima annotazione: una grossa novità su twitter è #CN4Iran (China for Iran) che insieme a #iranelection è entrato nei trending topics per tutta la giornata. Molti utenti cinesi di twitter sono con il movimento verde iraniano e, come dicevo su FB, questa è una graditissima novità.

Infine: pessima la copertura del TG3 come avevo già scritto nella mia pagina FB. Dice il servizio: "l'opposizione questa volta era preparata con armi da arti marziali", e inquadra la foto di un flagellante della processione di Ashura... Il genio aveva preso il "gatto a nove code" del flagellante per il "nunchaku" di Bruce Lee, già che siamo in tema di Cina!

domenica 27 dicembre 2009

Assassinio premeditato di Ali Mousavi


Traduco in italiano un testo pubblicato sulla pagina Facebook "Enghelabe Sabz" (rivoluzione verde). Il testo porta la firma di Mohsen Makhmalbaf, regista dissidente.

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I dettagli del martirio di Seyyed Alì Mousavi Habibi (nipote di Mir Hossein Mousavi).

Nei giorni scorsi Seyyed Alì Mousavi aveva ricevuto numerose minacce di morte per telefono. La sua famiglia ne era al corrente e si dichiarava preoccupata del fatto.

Stamattina, giorno di Ashura, una pattuglia investe alcune persone davanti alla casa di Seyyed Ali e dalla macchina scendono 5 uomini armati. Il più vicino colpisce Seyyed Ali al cuore con un colpo di pistola a bruciapelo, tanto da vicino che il proiettile esce dalla schiena. Poi i cinque saltano in macchina e fuggono via.

Il cognato di Seyyed Ali lo carica su un'auto e cerca di raggiungere l'ospedale ma la vittima muore durante il tragitto. Stasera le forze dell'ordine sono andate all'obitorio dell'ospedale per farsi consegnare il corpo con la scusa che verrà consegnato al coroner del carcere di Kahrizak [di fronte all'ospedale si sono accesi scontri violenti tra manifestanti e polizia, ndt].

Inoltre hanno minacciato la famiglia del defunto diffidandola dal tenere funerali pubblici. E' probabile che lo seppelliscano loro stessi stanotte per evitare cerimonie.

Seyyed Ali Mousavi aveva 43 anni, lascia moglie, una figlia di 17 anni e un figlio di 7. Suo fratello Ibrahim cadde martire durante la guerra [contro l'Irak - ndt]. La famiglia ritiene che si tratti di un atto terroristico volto ad influenzare Mir Hossein Mousavi e la sua famiglia.

Dato che il regime ha rapito i corpi dei martiri del giorno di Ashura, il popolo organizzerà le commemorazioni per le strade in tutto il paese. I percorsi sono gli stessi di oggi.

La foto pubblicata è della settimana prima della giornata di Al-Quds [un paio di mesi fa - ndt] e ritrae Seyyed Ali Mousavi in compagnia dello zio Mir Hossein.

Mohsen Makhmalbaf

"La Carmagnole" persiana

Carico una poesia di Mohammad Taghi Bahar "principe dei poeti", cantata e arrangiata in modo sublime dal maestro Shajarian e gruppo. L'esecuzione è di un paio di anni fa a Teheran. Si trattava di un concerto di beneficenza in occasiuone del terremoto di Bam.


venerdì 25 dicembre 2009

Democrazia, modernità, rivoluzione e Islam in Iran

Argomento ambizioso, ammetto.

Intanto ringrazio Malek per essere intervenuto e mi scuso per il ritardo. La sua replica meritava un approfondimento a parte perciò ho preferito rispondere aprendo questo nuovo post.

Premetto che l'argomento mi è venuto in mente grazie ad un saggio di Emmanuel Todd e Youssef Courbage, che devo ancora leggere ma che mi sembra interessantissimo. Il saggio si chiama "Incontro delle Civiltà" e, partendo da un'analisi puramente socio-demografica (natalità, istruzione femminile...), cerca di dimostrare che la conflittualità tra occidente e Islam è frutto di un abbaglio destinato ad essere superato in modo naturale. In parte vedo la conferma di queste tesi nell'evoluzione che ha avuto l'Iran da quando sono nato.

L'argomento poi se sia possibile o meno una "modernità non-occidentale" è vecchissimo ma al momento lo lascerei fuori perché allargherebbe troppo il discorso.

***

Resterei generico sulla natura dei "bisogni insoddisfatti" che causano una rivoluzione popolare. Secondo la Arendt ci sono due condizioni necessarie perché scoppi una rivoluzione. Certamente ci vuole una diffusa insoddisfazione, ma da sola non basta. E' anche necessaria la convinzione che la propria insoddisfazione non deriva da una "condizione naturale", insomma che la situazione può essere resa diversa con un'azione collettiva.

In Iran questa seconda convinzione ha radici religiose: la tirannia non è voluta da Dio, è stata sempre avversata dai suoi profeti e dai 12 imam. Perciò essa non è nell'ordine naturale delle cose. Pur non conoscendo benissimo le singole realtà arabe mi è parso di notare che la seconda condizione, la convinzione che le cose possano e debbano essere cambiate, è in genere assente anche in presenza di un'insoddisfazione popolare.

Giustamente come fa notare Malek non sempre: l'essere dominati dallo straniero scatena il senso di critica verso il governo occupante. Ne sono un esempio episodi e movimenti di resistenza anticoloniale nel sud del Mediterraneo, da Omar al-Mukhtar in Libia fino all'FLN in Algeria. E poi gli esempi dell'Iraq occupato o della Palestina. Ma la stessa visione critica sembra assopirsi quando non si è governati dallo straniero: una tirannia o una democrazia zoppa sembrano allora appartenere all'ordine naturale delle cose purché il tiranno sia "nostro".

Sento di dover analizzare alcune eccezioni. La prima è l'Egitto. Lì però l'opposizione ha più natura cospirativa che popolare (e la rivoluzione non è cospirazione). Oltretutto, data la storia recente del paese e i conflitti con Israele, l'opposizione ha ancora aspetti fortemente "revanchisti". Cioè si connota più come lotta contro lo straniero, che non come critica ad un presidente a vita colpevole semmai di non essere abbastanza duro col nemico.

La seconda eccezione è l'Algeria dove, dopo una prima vittoria elettorale (una vittoria in quei termini può essere l'inizio di una rivoluzione di massa), l'estrema violenza del movimento islamico nei confronti della popolazione non schierata ha dato praticamente ragione alla violentissima repressione militare.

In entrambi i casi si è trattato di movimenti del tutto diversi dai moti che hanno agitato l'Iran dagli inizi del ventesimo secolo: l'obiettivo del FIS algerino, ad esempio, non era quello ottenere una democrazia fondata (e giustificata) dalla tradizione islamica. Piuttosto era quello di imporre a un intero popolo una tradizione vissuta in modo autoritario.

In Iran invece è diffusissima l'idea che il concetto di sovranità popolare trova conferma nella tradizione islamica.

Il governante (حاکم) gode di legittimazione religiosa (مشروع) a patto che goda anche di legittimazione popolare (مقبول). Comunque sia, rivestire quella carica non lo rende mai infallibile (معصوم), e dunque resta un uomo criticabile. Questa ad esempio è la visione di Montazeri, che fu un Marjà di altissimo livello con molti "imitatori" (مقلد) tra gli stessi pasdaran.

Probabilmente hai ragione sul fatto che lo sciismo aiuta molto ad avere questo concetto rivoluzionario della tradizione. Che io sappia comunque non esistono altri casi, nel mondo islamico, di dottrine che intendano raggiungere la modernità attraverso la tradizione. La Turchia ad esempio è molto moderna ma non conta, ed è ovvio il perché: cosa c'è di "tradizionale" nell'abbandonare persino l'alfabeto in cui i tuoi padri hanno scritto le loro poesie?

Non che questa visione sia propria di tutto in popolo iraniano, anzi. Nella rivoluzione del 1979 c'èra molta ambiguità in proposito: era presente certamente la tendenza democratica appena descritta, ma era fortemente presente anche la tendenza reazionaria, quella assimilabile al FIS algerino.

Queste due componenti non arrivarono mai al conflitto aperto fino ad oggi. La guerra con l'Iraq e il terrorismo cieco dei mujahedin del popolo li costrinsero a convivere. Poi negli anni '90 la componente democratica scoprì di avere un consenso massiccio nel paese. Ma scoprì anche che non avrebbe mai potuto riformare il paese seguendo un iter legale, a causa di "monsieur veto" Khamenei e dell'istituzione che incarnava.

Tra il 2001 e il 2002 la situazione in Iran era già "pre-rivoluzionaria" a mio parere. Ma poi ci si mise quell'imbecille di Bush a far sì che le due componenti politiche della Repubblica Islamica si compattassero. Così oggi, sepolto Bush, la componente autoritaria e quella democratica sembrano quelle coppie che hanno vissuto per anni insieme odiandosi, e ora che i figli sono tutti cresciuti non solo divorziano ma si tirano pure i piatti.

Nell'area del Golfo l'esempio iraniano è stato vissuto come un imbarazzante pericolo da parte dell'estabilishment dei paesi arabi, a partire dal 1979. Un po' come le monarchie dell'ancien regime reagirono alla Francia repubblicana. Ciò fra l'altro fu la rovina di Saddam Hussein: un laico totale, spinto a invadere l'Iran trasformandosi nel braccio armato dell'ancien regime islamico.

La cosa che salta all'occhio nei moti di oggi è nuovamente l'imbarazzo delle stesse monarchie. Da una parte Ahmadinejad e Khamenei sono visti come nemici e fonte di instabilità nella regione. Dall'altra però, vedere nuovamente una rivoluzione che trionfa in Iran potrebbe essere pericoloso in prospettiva se il popolo iniziasse a pensare "ehi, allora è possibile!".

Sembra inarrestabile


La stupidità delle dittature:

Quando vedi che quasi un milione di persone sono scese per strada a commemorare l'ayatollah Montazeri a Qom e Najafabad, o leggi che il governo ha dovuto usare la forza per disperdere la folla alla commemorazione del religioso a Zanjan, ti viene facile commentare che il regime si sta sbriciolando.

Insomma Qom è la capitale religiosa del paese, Najafabad e Zanjan sono profonda provincia. Per mesi la propaganda di Ahmadinejad ha sostenuto che sì, Teheran magari è con Mousavi (anche se dai risultati elettorali pubblicati non sembrava...), ma si sa che la capitale è abitata da gente corrotta dal lusso occidentale: bisogna guardare la provincia, il "vero Iran".

Ora, parliamoci chiaro, si tratta dello stesso argomento patetico che usano i repubblicani americani alla Palin: la "vera america" secondo costoro sono i bovari dell'Oklahoma e i trogloditi dello Utah. Insomma chi li vota. Non certo le coste dove - si sa - "regna la corruzione". Insomma la "vera America" corrisponde al 20% della popolazione USA ad essere generosi.

Poi fra l'altro si scopre pure che in quella "vera america" c'è un sacco di gente che ha votato per presidente un democratico nero. E si scopre che a Zanjan, ripeto Zanjan (dio come vorrei che capiste quant'è incredibile!) la gente si fa manganellare e arrestare per celebrare i funerali del singolo ayatollah in assoluto più odiato dal regime.

Sotto un'altra ottica, si può dire che la morte di Montazeri ha dato una forte accelerazione agli eventi. Il regime non prevedeva manifestazioni così massicce per la morte di un religioso che, tutto sommato, non era mai stato difeso dal popolo da vivo. Nessuno lo difese ad esempio quando la sua casa venne attaccata dalle squadracce di Khamenei qualche anno fa, o quando fu messo agli arresti domiciliari. Perché mai avrebbe dovuto - il popolo - partecipare con passione ai suoi funerali? Semplice, coglione, perché il popolo oggi ti odia!

Così viene a galla l'intima stupidità delle dittature. Le dittature sono fatte da gente che non si informa per prendere decisioni giuste: al contrario prende delle decisioni, e poi cerca di trovare elementi che la avvallino a posteriori. Le dittature sono fatte da gente che non si consulta, ma che si parla addosso solo per darsi reciprocamente ragione.

Le decisioni delle dittature sono roba tarata, come i figli di gente che si sposa tra parenti di sangue da generazioni. Così la dittatura commette errori stupidi: titolare un giornale "Montazeri è morto", senza cioè mettere l'appellativo "Grande Ayatollah", con un intento puramente offensivo, è un errore stupido. Lo stesso errore peraltro che fece cadere lo Shah.

Mandare delle condoglianze dicendo "mi sei stato avversario, ma spero lo stesso che Dio ti perdonerà per questo" è un errore molto stupido.

Una sedicente "repubblica islamica" che disperde con la forza il corteo funebre di un "Marjà" sciita di importanza internazionale, che gli vieta l'accesso alla moschea, il tutto a Zanjan e due giorni prima dell'Ashura, fa l'errore più stupido del mondo.

Senza questi errori stupidi non ci sarebbero le rivoluzioni. Ma senza questi errori stupidi il regime non sarebbe una dittatura.

Scaricato dai fedeli alleati libanesi:

Gira voce che il governo iraniano abbia chiesto all'Hezbollah libanese una specie di "azione diversiva" contro Israele e che si sia sentito rispondere con una pernacchia.

Ora, va da sé che nell'ottica stupida di una dittatura, e in quella particolarmente stupida di questa, la rivolta in Iran è opera di Israele e perciò "vediamo di attaccarli a casa loro". Oppure quanto meno poteva essere un tentativo di distogliere l'attenzione mediatica dall'Iran.

Ma non ha funzionato. Primo perché la rivolta in Iran non è opera di Israele (e viene il forte dubbio che questa gente sia ormai talmente cretina da credere lei stessa alle balle che fa scrivere ai suoi giornali). Secondo perché l'Hezbollah non ha affatto voglia di scatenare un nuovo conflitto per salvare Ahmadinejad.

Insomma, secondo questa voce, le foto dei militanti libanesi usati in Iran per reprimere le manifestazioni popolari avrebbero fatto particolarmente impressione in Libano, erodendo pesantemente consensi e appoggi politici all'Hezbollah. Nasrallah non è un cretino: sa che il suo futuro politico in Libano è legato al fatto di essere considerato tutto sommato una forza di liberazione nazionale, e ci sta che non abbia voglia di giocarsi tutto.

Tagliata la via della ritirata?

Qualche analista ritiene che le operazioni squadriste messe in atto contro la casa di Montazeri e di Sanei a Qom all'indomani dei funerali, o i duri scontri a Isfahan e Zanjan, siano in realtà un tentativo dei militari di tagliare qualunque via del ritorno a Khamenei.

Sembrerebbe cioè che il vecchio sia particolarmente incazzato coi suoi, in particolare per il fatto che il governo continua a promettergli ordine senza riuscirci. Questo aprirebbe la possibilità che decida di dare Ahmadinejad in pasto al popolo pur di salvare se stesso e la famiglia. Percorrere una sorta di "soluzione cilena" insomma.

Non bisogna essere estremisti. Non si tratterebbe di una mezza vittoria per il movimento, ma di una delle vittorie possibili. Se passa anche una sola volta il principio che il Leader si deve piegare al volere del popolo, crolla l'intera implcatura ideologica del "Velayate Faqih": l'istituzione del "Leader della rivoluzione" di conseguenza perderebbe comunque qualunque connotazione politica, e ne resterebbe soltanto l'aspetto rappresentativo. Come la monarchia britannica.

Qualche paragone col passato:

Il che mi porta a fare una piccola lezioncina di patria storia. Spesso si è confrontato la situazione politica attuale con quella del tardo periodo dello Shah. In qualche modo il paragone è interessante, ma tutto sommato scorretto.

Il paragone più corretto va fatto con la Rivoluzione Costituzionale e, in particolare, con il periodo denominato "Tirannia Minore".

Nel 1906 dopo una lunga stagione di lotte il popolo ottiene la Carta Costituzionale, firmata dal re Mozaffarar ad-din Shah. Si insedia così il primo parlamento, segnando la fine della "tirannia maggiore", cioè della monarchia assoluta.

Dopo la morte di Mozaffarar ad-din Shah è incoronato re Mohammad Ali Shah. Costui, con l'aiuto dell'artiglieria zarista, sopprime il parlamento e restaura la monarchia assoluta, ma regnerà per soli tre anni alla fine dei quali sarà costretto a fuggire all'estero. Questi tre anni sono detti "tirannia minore".

La somiglianza consisterebbe nel fatto che, in entrambi i casi, la carta costituzionale è stata tradita dall'istituzione che aveva il dovere di farla rispettare nella lettera e nello spirito: nel primo caso il monarca, nel secondo caso la "Guida".

Alla prossima.

lunedì 21 dicembre 2009

Argomenti da approfondire

1) Perché in Iran?

C'è un Islam che identifica lo stato con la volontà popolare ("Umma"). Qui l'Islam diventa democratico (attenzione: non necessariamente liberale nell'accezione occidentale del termine) e perciò rivoluzionario. Tutto ciò è simbolicamente rappresentato dalla lotta di Husayn figlio Ali contro il califfo mu'awita Yazid, concluso con la sconfitta e l'assassinio di Husayn il 10 muharram del del 61 dell'egira (10 ott. 680 A.D.). La commemorazione annuale dell'evento quest'anno cade il 27 dicembre.

C'è un Islam poi che identifica lo stato e la "Umma" con il califfato. Qui a mio parere poco cambia che si tratti di un vero monarca, o che si tratti di un presidente eletto 25 volte senza rivali. Nella sua accezione sunnita questa parte della tradizione islamica - che mortifica il popolo riducendolo ad un oggetto - è incarnato dal wahhabismo saudita.

Il confronto tra questi due islam si sta combattendo oggi in Iran. Il perché andrebbe a mio parere approfondito. E' indubbio che gli iraniani, oggi come in passato, in tutto il mondo musulmano siano il popolo più reattivo contro la tirannia, ma perché?

Sarebbe bello avere in questa indagine l'aiuto di amici e parenti di nazionalità araba. Lo considerino un invito al dialogo.


2) Reprimere non è controllare

Non lo dico io, ma un rapporto consegnato a Khamenei stesso. Il governo di Ahmadinejad è impopolare. Certo, finché le forze dell'ordine ubbidiscono, strade sono presidiate, e gli assembramenti dispersi ogni giorno, il paese sembra controllato.

Ma il rapporto in questione sottolineava come il popolo stia facendo il vuoto intorno al governo: le visite di Ahmadinejad in città con milioni di abitanti, come Mashhad o Tabriz, hanno attirato poche migliaia di persone. Notare che parliamo di manifestazioni che vengono organizzate dal governo stesso, con tanto di precettazione degli studenti delle medie e dei militari messi in borghese, e contadini pagati e portati coi pullman da fuori città. E nessuno che manganella.

Il colmo è stato raggiunto venerdì scorso in una manifestazione indetta dal governo a Teheran, sull'onda di un'emotività finta basata su una probabile bufala trasmessa dalla TV di stato: una foto di Khomeini strappata non si capisce da chi e quando. Non hanno partecipato più di diecimila persone. Persone per lo più "multi-tasking": farsi vedere nella manifestazione, poi correre a presidiare le piazze in uniforme, poi andare a cancellare gli slogan dai muri... una vitaccia.


3) Nessuno vuole essere Yazid...

...soprattutto durante il muharram in un paese sciita. Gli slogan di oggi a Qom identificavano chiaramente Khamenei nello scomodo ruolo del tiranno assassino di Husayn. Il bello è che non ci può fare niente: la repressione è esattamente ciò che farebbe Yazid, e lo sprofonderebbe sempre più in quel ruolo.

Alla prossima.

domenica 20 dicembre 2009

Addio "gatto"

E' curioso trovarsi qui, dopo trent'anni di esilio, a scrivere un "coccodrillo" su Montazeri, ed è ancora più curioso che lo si faccia dal profondo del cuore. Ma la vita è imprevedibile.

Di certo si ricorderà il "prigioniero numero 57" delle carceri politiche dello Shah (nella foto) come una delle persone più integre del suo popolo.

Le persone sono estremamente severe di fronte alla corruzione, dimenticando che essa non è altro che la volontà di fare carriera portata alle sue logiche ed estreme conseguenze. Ragion per cui lo stesso tizio, così pronto a criticare la corruzione del prossimo, accetta volentieri un "regalino" per mandare avanti una pratica oppure l'intervento di un amico per passare un concorso.

L'Ayatollah Montazeri di sicuro ha dimostrato di essere incorruttibile, dal potere prima ancora che dal denaro: delfino di Khomeini nel 1986, ha in pratica rinunciato ad una sicura carriera politica di primo piano pur di non scendere a compromessi con la sua coscienza. La sua libertà nel parlare gli ha procurato numerosi problemi, compresa la visita di squadracce del regime nella sua casa di Qom alla fine degli anni '80, e una vita passata agli arresti domiciliari per motivi di ordine pubblico. E' questa la ragione per cui tanti in Iran lo amano.

Montazeri è stato uno dei massimi "marjà" del mondo sciita. Il suo grado teologico è notevolmente superiore a quasi tutti gli ayatollah del paese, con pochissime eccezioni (e Khamenei non è tra queste).

E' stato un portavoce della parte migliore dell'Islam: quella che identifica lo stato con il popolo, e la giustizia verso il popolo con la volontà di Dio. Quella che considera il voto del popolo come "la misura" alla quale lo stato deve attenersi. Quella che identifica il voto come un "pegno", provvisoriamente nelle mani del governo, ma che alla fine va restituito al suo legittimo proprietario tale e quale è stato ricevuto.

E alla fine dei suoi giorni ha anche avuto il tempo di dichiarare "haram" - illegittima per l'Islam - l'arma nucleare. Poiché non distingue tra colpevole e innocente e viola il principio del "parcere subjectis".

La morte dell'ayatollah cade in un momento estremamente teso e cruciale. Domani ci sono i suoi funerali, ne riparleremo.

martedì 17 novembre 2009

Kiarostami VS Ghobadi - redux


Roozbeh Khosrovani è una firma abituale della webzine "rahesabz", organo internet del movimento verde. Ieri è apparso un suo articolo in risposta alla lettera aperta di Ghobadi a Kiarostami, apparsa a sua volta sulla stessa webzine e da me tradotta qui.

L'articolo di Khosrovani richiama alla linea strategica "unità prima di tutto" e cerca di gettare acqua sul fuoco. Ciò si rende necessario anche per spegnere sul nascere possibili tentativi di provocazione del regime miranti a creare rotture tra le componenti del movimento, in primo luogo tra la sua componente estera e quella interna. Tentativi sui quali recentemente hanno messo in guardia sia Mohsen Sazegara sia Mohsen Makhmalbaf, oltre che gli stessi Mousavi e Karoubi.

***

A dire il vero quando ho letto la lettera aperta di Ghobadi a Kiarostami, nonostante la cosa mi abbia intristito, ho pensato che non erano affari miei. Kiarostami è, adulto, intelligente e dotato di lingua. Se lo avesse ritenuto opportuno avrebbe risposto, e di certo se avesse avuto bisogno di avvocati io non avrei avuto comunque alcun ruolo nella faccenda. Ma, dopo aver ricevuto diversi e-mail da amici, in qualche modo soddisfatti del contenuto della lettera di Ghobadi, ho pensato che dopo tutto non sarebbe male scrivere qualcosa in merito.

Personalmente detesto queste polemiche de-focalizzanti che ci allontanano dalle priorità del movimento, ma ho notato che molti amici non sapevano nulla della questione e giudicavano un grande personaggio come Kiarostami sulla base di informazioni parziali se non unilaterali.

La lettera di Ghobadi a Kiarostami era in risposta ad un'intervista in cui quest'ultimo dichiarava il suo desiderio di continuare a vivere in Iran nonostante le difficoltà. Ho letto quelle poche righe con molta simpatia, perché anch'io continuo a vivere in Iran condividendone contenuto e le motivazioni, e sono convinto che non siano poche le persone che la pensano allo stesso modo.

Prima di tutto è bene che gli amici leggano l'intervista a Kiarostami, qui. In quell'intervista Kiarostami parlava anche direttamente di Ghobadi, dicendo "se Ghobadi è convinto che fuori dal paese riuscirà a girare film migliori gli faccio i miei auguri, ma questa non è la mia esperienza personale". Credo che Kiarostami volesse semplicemente dire che, contrariamente a Ghobadi, non ritiene che girare film all'estero migliori la qualità dei suoi film, ma che anzi crede che la cosa produca l'effetto contrario.

Noi che abbiamo scelto di vivere in Iran, nonostante avessimo la possibilità di vivere all'estero, siamo persone comuni che hanno fatto questa scelta accettando le sue difficoltà e le sue dolcezze, tutto sommato preferendole all'esilio. Penso che, tra tutte le etichette da incollarci addosso, quella di "moderati" è un tantino ingiusta. Lo testimoniano i volti che vedo intorno a me in tutte le manifestazioni e in tutti gli scontri: persone che magari già anni addietro furono arrestate ed ora sono tornate alla loro vita normale, ma che essendosi presentata l'opportunità lottano spalla a spalla con migliaia di compatrioti e alzano la loro voce di protesta.

Comunque stiano le cose, noi che viviamo in Iran siamo ad una distanza inferiore dalla lama del boia. Sono certo che la quasi totalità degli amici che vivono all'estero sono emigrate negli anni '80 temendo ragionevolmente per la loro vita, ma la mia domanda è questa: che percentuale tra di loro continua a vivere all'estero oggi per la stessa ragione? Tra le mie conoscenze, tra le decine di persone che sono state costrette ad abbandonare il paese in quegli anni, coloro che rischierebbero l'arresto in caso di ritorno si contano sulle dita di una mano.

A mio parere la scelta del paese in cui vivere è personale. Certo i concittadini emigrati all'estero in quegli anni ormai hanno figli grandi, insomma si sono fatti una vita all'estero e non hanno nessuna voglia di affrontare un nuovo esilio, questa volta al contrario. Ma, cari amici che vivete all'estero per ragioni valide quanto volete, credetemi, etichettare come "moderati" noi e persone come Kiarostami, che viviamo in questo rudere, è profondamente ingiusto.

Un altro punto che bisogna tenere sempre a mente è che la forza di volontà cambia da persona a persona. Anche il modo e le occasioni in cui la volontà di una persona si manifesta cambiano, rendendo ovviamente impossibile qualunque forma di misurazione oggettiva. Io stesso, che partecipo a quasi tutte le manifestazioni, spesso sono sorpreso dal coraggio dei miei concittadini. In particolar modo quello delle donne. Cosa ci fa uno come me là in mezzo?

Ma non è importante. Ciò che è importante è che io, con tutta la mia "moderazione", non me ne sto in casa ed esco per la strada. Un altro magari non ha il coraggio di rischiare la strada e si limita a filmare e informare. Un terzo, come dice Mir Hossein Moussavi, non fa nemmeno quello e si limita a pregare o a sussurrare parole di pace e amicizia nelle orecchie di un basij... Ciò che caratterizza questo movimento è che chiunque fa del suo meglio per quanto consentitogli dalla sua indole, e tutti insieme affrontano - disarmati e indifesi - pallottole, pugnali, rischi personali. Sarebbe meglio se frenassimo la tendenza a etichettare, e valorizzassimo gli sforzi di tutti.

Io vivo in questo paese con tutte le sue difficoltà. Salgo su questi taxi scassati, lotto con i prezzi che volano come missili, sparlo dietro al regime in fila dal panettiere, litigo e mi faccio consolare dalla gente. Preferisco vivere qui che in qualunque altra parte del mondo, ma questa mia scelta non è un sacrificio, è appunto una scelta personale dovuta al fatto che non mi sono sentito "a casa" da nessun'altra parte.

Amici residenti all'estero, noi rispettiamo la vostra decisione di vivere fuori dall'Iran. Voi, per favore, cercate di comprendere e rispettare la nostra situazione, le nostre limitazioni, la nostra "moderazione". E non siate felici del giudizio severo e ingiusto del carissimo Bahman Ghobadi, che ha scelto di vivere a New York, e delle sue accuse a Kiarostami che invece ha scelto di vivere "in fondo a un vicolo cieco" a Teheran.

In ultimo, non è male se date una letta a questo comunicato [*] che denuncia il tentativo di cancellare il cinema iraniano indipendente, che porta, tra le altre, la firma del "moderato" Kiarostami.

[*] Ndt - Si tratta di un comunicato di una decina di righe, apparso anche su agenzie di stampa ufficiali del paese. Il comunicato denuncia il tentativo di normalizzare il cinema iraniano mediante l'uso simultaneo di strumenti legali (negazione di autorizzazioni a girare) e di mercato (esclusione dal ciclo distributivo). Tra la cinquantina di firme di registi si trova anche quella di Abbas Kiarostami.

venerdì 13 novembre 2009

Non violenza come scelta strategica


Non meno di 3 anni fa qualcuno un po' in vena di originalità mi disse che aveva notato un atteggiamento di basso profilo dei comici italiani nei confronti dell'islamismo militante. A suo dire i comici temono la ritorsione, e preferiscono evitare.

La mia opinione era che la critica all'islamismo in Europa funziona solo esteriormente, e solo per alcune posizioni politiche, ma che tutto sommato non è un problema davvero sentito a livello popolare. Se lo fosse stato, se davvero fosse stato un problema sentito "nelle ossa" del popolo, sostenevo allora (e sostengo ancora oggi), il pericolo di ritorsioni non avrebbe avuto alcun effetto.

Portai l'esempio di autori e scrittori iraniani che da anni sono quotidianamente critici verso l'islamismo militante a costo di essere ostracizzati, carcerati, torturati, esiliati. Uno di questi autori è Ebrahim Nabavi.

Ebrahim Nabavi è un grande autore satirico contemporaneo. In assoluto l'autore iraniano che leggo di più. Uno stile leggero e martellante allo stesso tempo, che colpisce duro e non fa prigionieri, ma senza perdere lucidità.

Per certi versi ricorda Beppe Grillo, ma meno incazzoso, più lucido appunto. Tutto sommato con più acume politico rispetto al comico genovese, e ne beneficia lo stile. In un paese come l'Iran, quando devi scrivere nonostante la censura e il carcere, l'acume ti si sviluppa da solo. Così ti doti di uno stile che spesso "il boia non capisce", come avrebbe detto Karl Kraus. Lo stile migliore.

Oggi traduco un suo scritto serio che prova quanto ho appena detto. Lo scritto è apparso sulla webzine "rahesabz", ed è interessante anche per un'altra discussione in cui sono impegnato via mail. A volte è difficile cogliere le differenze tra l'oggi e lo ieri, per motivi di età o perché si è distratti dalla quotidianità. Ma queste differenze vanno colte, altrimenti si rischia di trarre conclusioni troppo affrettate e si rischia di non capire cosa sta accadendo.

Il movimento rivoluzionario che rovesciò lo Shah trent'anni fa, non produsse mai uno scritto simile. Mai. E tra poco sarà chiaro perché. Buona lettura.

***

La violenza non ci renderà liberi:

Nella prima parte di questo articolo spiegai come la lotta non violenta sia oggi per noi l'unica opzione percorribile, e che la selvaggia repressione messa in atto il 4 novembre, nonostante sia un'amara realtà, non ci deve trascinare dove vuole il regime.

Il regime vuole che la lotta diventi violenta per far sì che sia costoso parteciparvi, così potranno affrontare manifestazioni di diecimila persone anziché masse di milioni. Diecimila persone possono essere attestate o disperse, ma nessuna polizia al mondo riuscirà mai a disperdere due milioni di individui. Di fronte a manifestazioni di massa, alla polizia non rimane altro da fare che stare a guardare dai vicoli laterali.

Quando internamente al movimento ci si lamenta del fatto che "a mani nude" riusciamo solo ad avere più perdite, dobbiamo chiederci: un cambiamento di strategia ed una lotta più radicale ci aiutano a raggiungere meglio i nostri obiettivi o il contrario?

In generale la teoria della lotta contro un regime ammette la "violenza primaria" in due situazioni. In primis quando si combatte per la vittoria, cioè per dare il colpo di grazia al regime. Oppure quando si combatte per informare e per rompere l'atmosfera di silenzio che grava sulla società (la teoria avanguardista: il "piccolo ingranaggio" della guerriglia che mette in moto il "grande ingranaggio" della società).

Nelle condizioni attuali il nostro movimento non ha alcuna esigenza di rompere il silenzio: il popolo è già informato e ha già preso posizione, e certamente sulla società non grava una cappa di silenzio e di disinteresse politico. Pertanto avremmo qualche ragione di ricorrere alla lotta armata solo se intravvedessimo più del 50% di possibilità di dare al regime il colpo di grazia.

Ora, visto che sappiamo tutti che in caso di occupazione di una caserma di pasdaran il regime contrattaccherà con tank, elicotteri ed RPG-7 e ci farà a pezzi, e dopo impiccherà gli arrestati, è ovvio che iniziare la lotta armata è stupido. La cosa sarebbe proponibile solo in caso di insurrezione generale a regime già sgretolato, come accadde l'11 febbraio 1979. Ma anche allora bisognerebbe continuare, con la politica, a provocare defezioni tra gli ultimi fedeli al regime per avere meno perdite.

[...]

Una comunicazione con minori costi umani significa anche un calo della violenza. Una parte della violenza contro il movimento è provocata non tanto dalla precisa volontà del regime di provocare terrore, quanto dal fatto che il movimento non gode di una comunicazione semplice ed agevole.

L'aiuto dei numerosi verdi fuori dal paese è di primaria importanza. Essi devono togliere dai compagni residenti nel paese il fardello organizzativo ogni volta che ciò è possibile. Continuare a comunicare usando i social network o l'email per distribuire comunicati, direttive, concordare slogan e iniziative, [...] farà calare notevolmente il rischio organizzativo, dato che i compagni all'estero sono al sicuro. In un certo senso si tratterebbe anche della vera messa in pratica del nostro principio di "leadership collettiva".

Sul piano mediatico ci troviamo impegnati in un confronto asimmetrico. Il nostro movimento esiste da soli sei mesi e si trova a doversi confrontare con una propaganda di regime che ha un'esperienza trentennale [...]. Voglio dire che una parte dei nostri problemi deriva dall'inesperienza. Va anche detto che il movimento sta crescendo, accumulando esperienza, e si va rafforzando rapidamente. Tuttavia per quel che concerne la leadership esecutiva ci sono ancora ampi margini di crescita.

Una cosa notevole è che il movimento è incredibilmente "saggio", in un modo che nella storia nazionale non ha precedenti. Ma si possono ancora fare molte cose per diminuire i costi umani. Ad esempio l'uso dei social network, per quanto utile sotto l'aspetto informativo e propagandistico, sotto l'aspetto organizzativo fa sì che il regime conosca perfettamente le nostre iniziative in anticipo.

Il regime può quindi mettere dei posti di blocco e far sì che i piccoli cortei non possano riunirsi nel tipico fiume umano. Di conseguenza crescono la quantità di scontri e la violenza del confronto. Con un'organizzazione dettagliata si evitano gli scontri [...].

Il punto di forza del movimento è la sua diffusione tra tutti i diversi strati sociali, anagrafici ed etnici del paese. Perché non è un movimento di guerriglia che richieda l'abbandono della vita ordinaria per parteciparvi. E' formato da persone che vogliono riprendersi i diritti che gli sono stati tolti, e non è giusto che perdano anche quello di vivere normalmente. Il movimento perciò deve utilizzare forme di lotta che possano essere messe in atto a prescindere dall'età o dalla propensione al sacrificio.

Un esempio è il canto collettivo di "Allah Akbar" dai terrazzi di notte: mostra la forza del movimento con pochissimo rischio personale. Un altro esempio è la pianificazione delle manifestazioni durante le ricorrenze ufficiali del regime. Ad esempio, nella prima decade di Muharram [17-27 dicembre ndt], la vita dei cittadini è già organizzata in modo tale da essere compatibile con cortei e manifestazioni quotiodiane. Noi dobbiamo far diventare il movimento una parte della vita ordinaria delle persone, e per questa via diminuirà anche il tasso di violenza.

[...]

Ogni picco di violenza contro il movimento ha certamente causato isolamento e divisioni in seno ai sostenitori del regime. Va però aggiunto che la violenza ha comunque anche l'effetto contrario: fa diminuire la presenza militante delle persone comuni favorevoli al movimento. Così pure qualunque denuncia delle violenze delle forze dell'ordine porta con sé entrambi gli effetti.

In questo contesto va prestata molta attenzione alla fondatezza delle denunce, proprio per evitare il "lato b" della questione. Ad esempio, se gli stupri ai danni donne e uomini arrestati non sono sistematici ma hanno rappresentato un'eccezione per quanto grave, noi non dobbiamo far intendere che lo sono, perché otterremmo solo di terrorizzare le compagne e le loro famiglie. Se sappiamo che le torture ai danni degli arrestati sono diminuiti grazie alle pressioni internazionali, non dobbiamo dire il contrario.

Provocare paure infondate è cedere all'avventurismo. Su questo tema non si deve scendere a compromessi, e sono necessari richiami fermi e immediati a chiunque contribuisca alla diffusione di denunce senza fonte verificabile.

[...]

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mercoledì 11 novembre 2009

Ghobadi contro Kiarostami

Leggo e traduco una dura lettera aperta del regista Bahman Ghobadi in replica ad un'intervista di Abbas Kiarostami. Nell'intervista il vecchio Kiarostami era stato molto polemico con l'impegno sociale e politico dei registi della cosiddetta "new wave" del cinema iraniano.

Il confronto polemico tra "cinema puro" e "cinema ideologico" è noioso quanto un vecchio che ti racconta di quando scopava. Ma la lettera è interessante per far capire come, ormai, in Iran, «non esiste più un 'là fuori'».

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Carissimo signor Kiarostami

In tutti questi anni, durante i quali come regista per me sei stato un modello ispiratore, non ho mai osato scriverti nemmeno una lettera privata. Se mi venivano in mente delle cose da dire, cacciavo il pensiero preferendo ascoltare le tue saggi parole in silenzio. Ma la tua recente intervista con un giornale straniero mi ha talmente sorpreso che ho preso in mano la penna per scriverti pubblicamente.

Tutto è iniziato quella maledetta sera al festival Abu Dhabi, quando mi hai preso per il braccio e, in privato, mi hai detto che il mio film "nessuno sa nulla dei gatti persiani" non ti era piaciuto. Non ci sono rimasto male, sono rimasto estremamente sorpreso: cinque mesi prima avevi visto lo stesso film a casa mia a Teheran e mi avevi detto che ti piaceva.

Non capivo come mai avevi cambiato idea in un così breve tempo ma, come sempre, la tua opinione era per me importante e ti ho ringraziato. Però poi hai proseguito. Hai criticato ferocemente il mio concetto di cinema e il mio approccio alle questioni sociali, usando contro di me e Panahi un linguaggio sgradevole che non mi sarei mai aspettato di sentire da una persona del tuo calibro. Hai paragonato il nostro cinema alle opere più sciocche che uno possa immaginare. Non solo, ma ci hai accusati di menzogna, quando ci eravamo limitati a riportare - nelle nostre pellicole - le parole che avevamo sentito nei sotterranei delle nostre case e negli angusti vicoli delle nostre città.

Hai detto che quando per un regista si battono le mani e lo si copre di ovazioni, ormai è un regista morto. Forse allora anche Kiarostami era già un regista morto a Cannes dopo Il Sapore della Ciliegia e Sotto gli Ulivi? Dopo la proiezione del mio film eri l’unico in sala che non applaudiva e sembrava persino arrabbiato.

Mio caro e prezioso maestro, i tuoi insegnamenti sono stati importanti per me e per tutti i cinefili del paese. Ma questo non ti dà il diritto di tracciare un solco dal quale non si può deviare, e di considerare senza valore qualunque film che non sia, come i tuoi, intimistico e completamente al di fuori delle questioni sociali.

Io prendo le mie motivazioni dal respiro caldo del pubblico, dalla sua approvazione, che per me è un premio notevolmente più prezioso del premio in denaro che lo stesso pubblico mi ha elargito. Il mio stile è quello di cercare di provocare reazioni nel pubblico, di stabilire un’empatia.

Quando quella sera mi hai tirato da parte, per un attimo ho pensato volessi consolarmi per non aver vinto il primo premio. Mi stavo preparando a risponderti che non tengo in grande considerazione le vittorie e che ero soddisfatto dalla reazione del pubblico. Avresti fatto meglio a tacere e non mandare in pezzi il mito che di te avevo costruito nel mio immaginario.

Carissimo signor Kiarostami, tu non ha diritto di accusare noi di fare del cinema militante solo per ripulire la tua coscienza di moderato silenzioso. Per tutti questi anni hai girato pellicole che non avevano alcun rapporto con la politica e con la nostra società, ed è assolutamente ovvio che si tratta di un tuo diritto.

Anche se, va detto, se lo avessi fatto, se avessi schiuso le labbra a criticare l’ingiustizia del tiranno, avresti sicuramente goduto di margini di intoccabilità superiori al nostro. Se io e Jafar, con tutto quello che abbiamo subito, godiamo della solidarietà degli organizzatori dei festival e di qualche cittadino informato in giro per il mondo, per te, se solo ti avessero toccato, sarebbe sceso in campo l’ONU!

Ma come ho detto il silenzio è un tuo diritto. Quello che non è un tuo diritto è il rilasciare interviste che vengono poi pubblicate con sorriso soddisfatto dai media del regime. Come ti permetti di deridere il desiderio degli autori di affiancare, con le loro opere, il popolo in lotta? Con un linguaggio, oltretutto, che fino ad oggi ha identificato i media del regime e il clero più oscurantista.

Dici che non c’è paese al mondo meglio dell’Iran per fare cinema. Forse è vero per i film che giri tu, ma per chi desidera fare un cinema come il nostro, l’Iran è una caserma. Come fai a definire un paese che mette in atto la più rigida delle “il miglior paese per girare dei film”?

Quando ai nostri registi, uno dopo l’altro, viene ritirato il passaporto, e Panahi perde la possibilità di iniziare un’importante coproduzione internazionale, con che coraggio non solo non li difendi, ma addirittura li critichi perché non girano film in Iran, notoriamente “il miglior posto al mondo per girare un film”? Forse non capisco la tua ironia, ma non ho visto nessuna traccia di humour nelle tue parole. Se davvero credi a quello che dici, allora per quale motivo il tuo ultimo film è girato a 5000 chilometri dall’Iran, in Toscana?

Nella stessa intervista diventavo bersaglio delle tue frecciate: “se Ghobadi crede di poter fare del buon cinema fuori dal paese gli faccio i miei auguri; da quel che ho visto io, per quelli che hanno fatto questa scelta, le cose sono andate diversamente”. Io non ho abbandonato il mio paese. Io sono stato CACCIATO dal mio paese, perché mi si è impedito di lavorare! E nonostante questo, mentre tu eri in Toscana a girare, io stavo girando a Teheran. Non voglio pensare che stai proiettando te stesso su altri.

Se io, come ogni patriota, mi preoccupo per il mio paese, se lo faccio attraverso dei film, lo faccio perché la società ha fatto di me un regista. Non lo faccio per istigare i giovani a lasciare il paese, non è l’obiettivo del mio film, che presto sarà distribuito gratis nel paese. E allora tutti potranno giudicare.

Hai detto: “l’unico posto in cui posso dormire tranquillo la notte è casa mia…”. Come fai a dormire la notte, quando tutto il mondo sa quello che capita ai nostri giovani? Come riesci a dormire, quando i tuoi compatrioti non prendono sonno preoccupati per il loro futuro e quello dei loro figli? Cosa ne sai di come ci si sente, quando il tuo film ha successo a Cannes ma tu finisci in prigione, quando vieni inquisito per le interviste che hai rilasciato e in cui hai parlato della situazione del tuo paese?

Io ho provato tutto questo nella mia carne e nelle mie ossa. E’ per questo che non riesco a prendere sonno. E’ per questo che la situazione in cui oggi versa il paese è per me più importante del cinema. E’ per questo che accetto persino di rinunciare al mio lavoro pur di restare accanto ai miei compatrioti. Mi manca tanto quel monolocale dove di notte dormivo beato. Ma tu dormi pure tranquillo, tu che puoi.

Hai scritto: “voglio girare i film nel mio paese e nella lingua di mia madre”. Perché non ti hanno mai ridotto al silenzio per il fatto di essere curdo e sunnita. Ma in quello stesso paese che è anche il mio, non mi è stata mai data l’autorizzazione per girare un film nella lingua di mia madre.

Anch’io amo il mio paese. Anch’io amo girare film nella lingua di mia madre. Ma questo piacere mi viene negato perché non sono stato zitto. Tu hai tutto questo al prezzo del tuo silenzio. Avresti fatto bene ad andare per la tua strada. A restartene silenzioso a casa tua, in fondo a quel vicolo cieco, a dormire il sonno dei giusti. A lasciarci stare in compagnia della nostra gente, quella gente il cui futuro ci preme più del nostro cinema. Che bisogno c’era di mettersi a dire le cose che già dicono quelli che opprimono il popolo?

Caso signor Kiarostami, in questi giorni che stabiliranno il destino del nostro paese, che tu voglia o non voglia, giusto o sbagliato che sia, l’unica misura della rispettabilità e dell’onore di una persona è se sta dalla parte del popolo o da quella dei suoi oppressori. Tu, con le tue parole, hai criticato la nostra decisione di stare dalla parte del popolo con il nostro lavoro, la nostra arte, con la nostra voce nei festival.

Il popolo non dimenticherà il silenzio degli artisti. E il popolo è il migliore dei giudici.

lunedì 9 novembre 2009

Qualcuno riconosce un odore antico


Traduco alcuni brani di un'analisi dello storico iraniano Abdollah Shahbazi, fondatore dell'Istituto delle Ricerche Politiche dell'università di Teheran, sul suo blog. Non che la persona mi sia particolarmente simpatica, anzi. Certo Wikipedia va preso con le molle, ma la sua pagina non è particolarmente lusinghiera a mio modo di vedere.

Da quel poco che ho letto sul suo blog mi pare molto vicino ad un antisemitismo abbastanza dozzinale e alle teorie del complotto, come alcuni nazi-maoisti di nostra conoscenza. Non le ritengo colpe emendabili, ed è roba quanto più lontana possibile da una visione scientifica, materialista e marxista della storia. Sebbene l'analisi che sto pubblicando sembra essere abbastanza lucida puntuale, altrimenti non mi ci sarei messo.

Il “male del complottismo” in realtà sembra particolarmente diffuso tra gli storici iraniani, e anche nella società. Il che è abbastanza curioso: un popolo che da un secolo e mezzo ogni trent’anni dà inizio a una rivoluzione, dovrebbe conoscere il peso delle masse nella dialettica storica. Eppure subito dopo la rivoluzione sentivi cose tipo “Khomeini è stato messo su dagli americani per danneggiare i russi”, anche da fonti colte e insospettabili che avevano partecipato alla rivoluzione personalmente. Un argomento che mi fa credere che – durante una rivoluzione – il popolo si trova in uno stato di semi-incoscienza, e che non riconosce più se stesso dopo, a giochi fatti.

Comunque, dicevo, nonostante il personaggio non mi sia particolarmente simpatico, trovo che quest'analisi sia lucida e che la sua opinione sia rappresentativa di chi vive gli eventi attuali da “dentro” il regime. Opinioni che mostrano ancora una volta l’isolamento di Ahmadinejad e di ciò che egli si porta dietro. Anche tra intellettuali fedelissimi alla repubblica islamica e alla visione complottistica del mondo, pienamente in linea con la dottrina dell'imam Khomeini.

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Rivolta o rivoluzione?

La sera del 4 novembre ho deciso di fare un giro per le strade, prestando molta attenzione. Ho visto un grosso assembramento nel cortile dell'Università di Shiraz, circondato da Pasdaran e da provocatori in borghese. C'era anche un'insolita presenza di persone comuni sui marciapiedi intorno alla zona, che all'apparenza stavano passeggiando, ma che in realtà aspettavano solo una scintilla per intervenire. Sono tornato a casa e ho seguito i notiziari della notte, giungendo a delle conclusioni.

Non vedo necessità alcuna di trattenermi, dunque parlerò tranquillamente fuori dai denti. La mia storia e le mie preferenze politiche sono note a tutti e quindi non serve nessuna prefazione. Insomma vado dritto al punto.

Nella dialettica politica e sociale contemporanea assistiamo due avvenimenti, diversi tra di loro, ma che inizialmente assumono forme assai simili: le rivolte urbane e le rivoluzioni sociali.

Le rivolte urbane sono eventi collegati al concetto di urbanizzazione e alla peculiare composizione demografica e sociale delle grandi città occidentali. Composizione che, a partire dal secolo XIX, si è estesa anche a realtà extraeuropee. Non sono state poche le rivolte urbane negli ultimi due secoli, un sommario elenco delle quali è presente su wikipedia in lingua inglese.

La rivoluzione è un evento completamente diverso che ha profonde radici sociali. Nella rivoluzione, grandi masse popolari si ritrovano unite intorno a desideri comuni di tipo sociale o economico. La rivoluzione inoltre si manifesta in modo molto chiaro come negazione della condizione presente, mentre non è altrettanto chiara la condizione futura che si desidera.

Le rivolte sono eventi passeggeri pur avendo cause sociali complesse. Possono essere dotate di una spettacolare forza distruttiva, come a Los Angeles nel 1992 o a Parigi nel 2005, ma si esauriscono in un tempo breve. La loro presenza non è di per sé segno di instabilità del sistema. Le rivoluzioni al contrario possono iniziare in sordina ma, data la profondità delle loro radici sociali, non sono eventi passeggeri e fatalmente finiscono per modificare l'assetto politico del paese.

Le rivolte non sono eventi ignoti: sono studiate nelle università e v'è una consistente bibliografia sull'argomento. Inoltre, dato che l'evento accompagna da molto tempo le società contemporanee, le forze di polizia sono in genere adeguatamente addestrate e preparate a farvi fronte. Contro una rivolta in genere la forza è efficace, perché affronta la teppaglia. Ma anche in una rivolta la polizia tende ad usare solo il minimo di forza necessario, evitando di esacerbare ulteriormente gli animi: l'obiettivo è contenere la violenza e riportare la calma, non il contrario.

Non si può affrontare una rivoluzione allo stesso modo. Non si ha di fronte della teppaglia, ma vasti gruppi sociali motivati e non pochi intellettuali. Un regime che cerca la stabilità non può affrontare una rivoluzione con le stesse armi che usa per affrontare le rivolte. Una scelta di questo genere conduce inevitabilmente ad un confronto sanguinoso con la rivoluzione, la caduta violenta del regime, e la disgregazione della società.

Ovviamente si può tentare di contenere per qualche tempo una rivoluzione con la repressione: la rivoluzione russa del 1905 e del 1907, oppure i moti del 1963 e 1964 in Iran, ne sono un esempio. Tuttavia si tratta di casi in cui la repressione in ultima analisi non funzionò: in entrambi i casi la rivoluzione trionfò più o meno un decennio dopo.

Che cosa vedo?

Bisogna osservare gli eventi degli ultimi 5 mesi e mezzo con onestà intellettuale. Va prima osservato correttamente il fenomeno, e poi va cercata la cura. Se un analista, per un pregiudizio ideologico o per orgoglio, non comprendesse correttamente il fenomeno, naturalmente anche i rimedi saranno errati. Negli ultimi mesi, ciò al quale io credo di assistere è il tentativo maldestro di far passare il fenomeno in un modo diverso da ciò che è in realtà. Continuando su questa strada si getta benzina sul fuoco, e gli eventi che seguiranno saranno irrimediabili. Ciò che io osservo non è una rivolta. La sua intensità non è diminuita dopo le prime repressioni, è aumentata. Non si sta esaurendo, sta durando. Non è circoscritto, si allarga.

Ho sentito molti amici, per telefono. E' necessario che non si affronti questa cosa come una rivolta. Non abbiamo di fronte una rivolta, ma una rivoluzione. Sono certo che le mie parole non troveranno spazio nei media, perciò uso il mio blog. A molti la parola "rivoluzione" non fa piacere, molti non osano pronunciarla. Ma bisogna osare. Io mi sento responsabile. Oggi abbiamo ancora delle opzioni che, temo, domani non saranno più a portata di mano. Temo la guerra civile.

Che fare?

Preso atto che siamo di fronte ad una rivoluzione, possiamo tentare alcuni rimedi.

Anzitutto va notato che, diversamente dalle rivoluzioni del passato, i leader riconosciuti e rispettati di questa rivoluzione non desiderano rovesciare il sistema ma correggerlo. Il popolo poi rispetta la volontà di questi leader, la prova è l'abbandono dello slogan "repubblica iraniana" come aveva richiesto Karoubi. Il popolo delle piazze poi è diverso dalla plebaglia della Rivoluzione Francese. E' accorto e istruito, e non finirà così facilmente preda di politici e demagoghi improvvisati. Sono tutte buone notizie per coloro che desiderano il ritorno agli obiettivi originari della rivoluzione del 1979.

Se le mie parole avessero un qualche peso, chiederei di soffermarsi e meditare.

Se le mie parole avessero un peso, chiederei che si avviassero colloqui con Mousavi, Khatami e Karoubi e si lavorasse per il futuro del paese. Ricorderei che nel 1848 gli inglesi appoggiarono in Francia un uomo che non contrastava i loro interessi: Napoleone terzo. Ricorderei come i tedeschi nel 1917 appoggiarono Lenin, per ottenere una pace separata con la Russia. E' mai possibile che il regime non riesca e non voglia dialogare con personaggi come Mousavi, Khatami e Karoubi, che si definiscono fedeli alla Repubblica Islamica e le debbono l'intera carriera politica? E' possibile che il regime preferisca isolare questi leader moderati, e veder trasformare la protesta in un'onda cieca e informe che tutto travolge, pronta per essere cavalcata da avventurieri? E' possibile che ci si voglia comportare al contrario della logica?

Se le mie parole avessero un peso, chiederei che ad Ahmadinejad venisse immediatamente revocata la presidenza da parte del Parlamento, per grave incapacità. Chiederei che venisse immediatamente processato, in un vero processo, per essere stato causa dell'inizio di un'ondata rivoluzionaria nel paese. E per aver spinto il paese verso crisi interne e internazionali continuamente, per tutti gli anni in cui è stato in carica. Al punto che persino gli intellettuali vicini alla destra conservatrice oggi lo considerano "una piaga dal cielo" o un "male incurabile".

Se le mie parole avessero un peso, chiederei che i direttori pagliacci dei media nazionali, e molti imam del venerdì, vengano rimossi ed alcuni di loro processati per aver complottato ai danni della nazione.

In una parola, se le mie parole contassero qualcosa, chiederei che "i saggi della tribù" si riuniscano, lascino da parte i propri gusti e i propri passati politici, e trovino una via d'uscita per il paese.